di Marta Cerioni
Entrati nell’era dei big data, gli utenti possono trovarsi intrappolati nelle maglie dell’illegalità economica manifestata attraverso pratiche ingannevoli che abusano dei loro dati personali in via indiretta. È esattamente ciò che è stato accertato dalla sentenza 603 del Tar per il Lazio, depositata il 13 gennaio scorso, a conferma di un provvedimento dell’Agcm che ha sanzionato delle società per violazione degli articoli 21 e 22 del Codice del consumo. Un’azienda molto rilevante in Italia acquisiva i dati dei propri clienti e poi li condivideva con il partner per finalità di collocamento di contratti di assicurazioni effettuati da quest’ultimo. Si verificava un intreccio di identità delle compagnie che, sebbene autonome, potevano essere confuse a causa del nome similare. Più specificamente, l’azienda che legittimamente deteneva i dati e l’informativa corretta al loro utilizzo per le proprie attività, in un momento successivo, li faceva confluire in una banca dati autonoma da cui l’azienda partner attingeva per promuovere la propria e diversa attività commerciale, usando algoritmi non chiari e altre pratiche ingannevoli che minavano la libertà negoziale degli utenti. La meritoria attività sanzionatoria dell’Antitrust, peraltro confermata dalla sentenza dei giudici amministrativi, ha il pregio di squarciare il velo delle pratiche commerciali scorrette aventi ad oggetto proprio i dati.
Ebbene, la sfida della digitalizzazione nelle attività economiche sta mostrando i lati più subdoli in danno degli utenti in quanto è stato accertato che i dati non sono più soltanto oggetto di compravendita ma hanno un «valore economico potenziale» che si manifesta anche in via indiretta come «grimaldello» per influenzare scelte negoziali non altrimenti compiute, opportunamente veicolate da un algoritmo che crea il preventivo più conveniente per l’utente. Tuttavia, le caratteristiche dell’algoritmo stesso non vengono esplicitate e, pertanto, nonostante i proclami, la proposta negoziale potrebbe non essere la più economicamente vantaggiosa. La sentenza, inoltre, conferma pienamente la logica normativa della «tutela integrata» dell’utente sia da parte del Garante per la protezione dei dati personali, sia dell’Antitrust, non potendo ravvisarsi una competenza assorbente esclusiva sui «dati» da parte del primo bensì «totale autonomia dei piani di tutela» in modo complementare donando sostanza ed effettività all’articolo 24 della Costituzione. Anche questa vicenda ci ricorda che le informazioni e i dati rappresentano una miniera di beni dalla sterminata possibilità di utilizzo economico: beni intangibili che possono ritenersi di «rilevanza costituzionale» sia perché collegati alla persona e alla sua identità sia perché idonei (ove manipolati) a «inquinare», indirettamente ma fatalmente, il processo di ragionamento umano nel mercato tout court e nel cosiddetto marketplace of ideas. La sfida della digitalizzazione sarà davvero vinta quando si troverà un equilibrio tra libertà e sicurezza delle informazioni e dei dati. Nell’attesa, ci rallegriamo della presenza vigile e attenta di Antitrust, autentico e immediato baluardo a difesa degli utenti. (riproduzione riservata)
*professoressa associata di Diritto Costituzionale all’Università Politecnica Marche
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