PER IL CNF L’AVVOCATO È RESPONSABILE ANCHE DELLA CONDOTTA PERSONALE
di Michele Damiani
Responsabilità disciplinare per gli avvocati anche al di fuori della propria professione. Il professionista forense, vivendo in un contesto sociale, non potrà ignorare che le persone potrebbero porre affidamento nella sua persona per la ragione che incarna la professione legale. Dovrà quindi ritenersi disciplinatamente responsabile per tutte quelle azioni che ledono i suoi doveri e che potrebbero «recare danno all’immagine dell’avvocatura». È quanto si legge nella sentenza n. 56 del Consiglio nazionale forense, che analizza le responsabilità di un avvocato in merito ai comportamenti poste in essere al di fuori della professione.
Nel caso specifico, il legale era stato accusato di aver sottratto beni e somme a una società, indirizzandole verso un’azienda da lui costituita. Il primo procedimento penale si concluse con un patteggiamento. La società in questione aveva poi presentato contro l’avvocato due denunce, a cui sono seguiti altri due procedimenti penali. In uno di questi il legale è stato condannato a un anno di reclusione e a 400 euro di multa (nell’altro è stato assolto). A questo si è aggiunto anche il procedimento disciplinare, che ha portato alla sospensione dall’esercizio dell’attività per un anno e mezzo.
Il legale decide quindi di impugnare la decisione del consiglio distrettuale di disciplina sostenendo, tra le altre cose, che il rapporto con la società non rientrasse nell’esercizio della professione forense, avendo con la stessa un contratto a progetto e non una procura.
Per prima cosa, il Cnf inquadra la condotta del professionista; distraendo beni e somme alla parte offesa «l’incolpato è venuto certamente meno ai doveri di probità, lealtà e correttezza, fedeltà, diligenza, a discapito della sua reputazione e compromettendo l’immagine della classe forense». Il suo comportamento, quindi, ha un impatto sulla professione a prescindere dal perimetro in cui viene inquadrata l’attività svolta, per il solo fatto di essere un comportamento non accettabile.
La questione non è nuova: il Cnf era già intervenuto sul punto con la sentenza n. 2 del 23 gennaio 2017, con la quale era stato affermato che «deve ritenersi disciplinarmente responsabile l’avvocato per le condotte poste in atto, non solo inerenti alla propria professione ma a tutte quelle azioni che ledono i doveri di probità, dignità e decoro nella propria vita sociale, recando danno all’immagine dell’avvocatura e facendone perdere la sua credibilità. La violazione deontologica sussiste anche a prescindere dalla notorietà dei fatti».
Le azioni poste in essere al di fuori della professione, quindi, hanno un impatto sull’immagine dell’avvocato e indirettamente su tutta l’avvocatura. Il legale, perciò, potrà subire un procedimento disciplinare anche per comportamenti adottati nella vita di tutti i giorni, al di fuori della professione. Oltre ai motivi sopra citati, il Cnf sottolinea inoltre che occorre tener presente «che l’avvocato, vivendo all’interno del contesto sociale, avendo rapporti intersoggettivi, non potrà ignorare che le persone potrebbero porre affidamento nella sua persona per la ragione che incarna la professione legale».
Solo il fatto di essere un avvocato, quindi, creerebbe nelle persone una fiducia preventiva che non può essere tradita per non intaccare, tra le altre cose, l’immagine dell’avvocatura stessa.
Il testo della decisione su www.italiaoggi.it/documenti-italiaoggi
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