QUELLE DI CALTAGIRONE E DEL VECCHIO SU MEDIOBANCA E GENERALI NON SONO INCURSIONI INEDITE NELLA CRONACA RECENTE DELLA FINANZA
Dopo quello delle Generali, il secondo fronte societario che vede assieme belligeranti Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone è quello di Mediobanca. Questa volta con pesi tra loro diversi rispetto alla compagnia di Trieste. Del Vecchio ha il 18,9% della banca di piazzetta Cuccia, mentre Caltagirone è accreditato di una quota del 3%. Del Vecchio è stato autorizzato a salire fino al 19,9% dalla Bce in quanto qualificatosi come investitore finanziario, non interessato a partecipare alla gestione della banca. Questa circostanza lo ha fatto desistere dalle iniziali dichiarazioni aperte di critica della strategia dell’istituto. E anche nell’ultima assemblea di Mediobanca (che per tradizione si tiene il 28 ottobre, una strana coincidenza con la data della marcia su Roma), Del Vecchio ha ottenuto delle modifiche statutarie di rilievo ma non ha votato contro la gestione dell’ad, Alberto Nagel. Ma che succede quando imprenditori di successo decidono di entrare in banca o nelle assicurazioni non come clienti ma come azionisti di rilievo, magari con l’intento anche di dirigerne le strategie? Come vanno a finire le cose? MF-Milano Finanza ha raccolto alcuni casi di investimento, in Italia e all’estero, degli ultimi 20 anni.

I Benetton

«La Comit vola basso, me ne vado». Era il settembre del 1997 e Gilberto Benetton, artefice della politica di diversificazione del gruppo di Ponzano Veneto, commentò così la cessione dell’1% della Banca Commerciale Italiana (oggi parte di Intesa Sanpaolo), acquistato tre anni prima al momento della privatizzazione, lamentando un’eccessiva ingerenza di Mediobanca e dei suoi alleati. Ma in seguito i rapporti tra la famiglia di Ponzano Veneto e Piazzetta Cuccia si sono intrecciati profondamente, sia per il 2,2% che la famiglia trevigiana ha vincolato al patto di sindacato della banca (sciolto nel 2018) e poi all’accordo di consultazione disdetto nel 2021, sia per la fitta rete di partecipazioni in comune, spesso cementate da accordi parasociali. Anche l’ingresso in Generali è rientrato in questa logica, con i Benetton che rilevarono una quota che negli anni è oscillata dallo 0,68% al 3,049% attuale. Non è ancora ufficiale la posizione dei Benetton nella contesa che contrappone Mediobanca a Caltagirone e Del Vecchio. La famiglia fino al 2006 ha posseduto anche il 5% del capitale di Banca Antonveneta. In quell’anno i Benetton decisero di vendere la loro quota alla Banca Popolare di Lodi, pendente l’offerta pubblica di acquisto lanciata da Abn Amro. Dalla vendita ricavarono 379 milioni di euro e una plusvalenza di 119 milioni, circa 17 in più di quello che Edizione avrebbe ricevuto se avesse partecipato all’offerta pubblica di acquisto decisa dalla banca olandese. Al 28 settembre dello scorso anno risale invece il disimpegno della holding dal patto di Mediobanca, accordo di consultazione a cui i Benetton avevano apportato nel 2007 una quota del 2,1% di piazzetta Cuccia che oggi (non risulta che i Benetton abbiano venduto nel frattempo azioni) vale circa 190 milioni.

Silvio Berlusconi

Nel 1982 Berlusconi ed Ennio Doris, soci al 50%, lanciarono Programma Italia, una rete di consulenti finanziari che nel corso degli anni si è trasformata fino a diventare Banca Mediolanum nel 1997. Oggi Banca Mediolanum è attiva nei settori bancario, assicurativo, della finanza al consumo e dell’asset management con una capitalizzazione di mercato di quasi 6,7 miliardi di euro. La partecipazione della famiglia Berlusconi in Banca Mediolanum è del 30,1%. Un vero affare per il Cavaliere, quello di appoggiare l’idea di Doris nella piazzetta di Portofino.

Francesco G. Caltagirone

Caltagirone iniziò a investire in banche nei primi anni 90, entrando nella Banca nazionale dell’agricoltura (appoggiando il Credito italiano che tentò senza successo di scalarla) e successivamente rivendendo la quota con una piccola plusvalenza. Ritornò a comprarne nel 1998, quando Bna era passata sotto il controllo della Banca di Roma, rilevando ai blocchi il 3,51% per circa 45,7 miliardi (21 mln di euro), per poi salire al 3,7%. Nel giugno 2003 entrò nella partita Bnl, rilevando il 0,6% e successivamente salendo fino al 4,9%. Nel 2004, insieme a un gruppo di imprenditori (per lo più immobiliaristi) raggiunse un accordo per presentare una propria lista per il rinnovo del cda. Il 29 marzo 2005 il gruppo bancario spagnolo Bbva, che già deteneva una quota del 14,75% di Bnl, lanciò un’offerta pubblica di acquisto sulla banca. Lo stesso anno, il patto vendette la sua partecipazione (circa il 27%) all’Unipol (allora guidata da Giovanni Consorte), che lanciò poi un’opa concorrente il 19 luglio 2005. Caltagirone realizzò in quell’occasione una plusvalenza di 250 milioni di euro. Il 22 luglio 2005 Bbva rinunciò alla sua offerta pubblica, dicendosi disposto a aderire a quella concorrente lanciata da Unipol. Ma il 10 gennaio 2006, Banca d’Italia bloccò l’opa targata Unipol a causa di accuse di interferenze dell’allora governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, sull’offerta pubblica di Bbva, allo scopo di ostacolarla e favorire quella di Unipol. Nel 2011 Caltagirone fu condannato a tre anni e sei mesi per aggiotaggio in relazione a quella fallita opa su Bnl, ma l’anno dopo fu assolto dalla Corte d’appello e con lui il governatore Fazio. Nel frattempo, nel 2005, Caltagirone aveva acquistato una quota del 2,8% del Monte dei Paschi, per poi salire al 4,7%, partecipando a due aumenti di capitale di Mps (5 miliardi di euro nel 2008 e 2 miliardi di euro nel 2011). Nel 2006 fu nominato vicepresidente della banca senese, carica che ha ricoperto fino alla fine del 2011. A inizio 2012 Caltagirone vendette la sua partecipazione, registrando una significativa minusvalenza (la stampa dell’epoca parlò di circa 300 milioni di euro), poche settimane prima dell’apertura ufficiale dell’indagine per manipolazione contabile ai danni dei vertici del gruppo legata all’acquisizione di Banca Antonveneta.

Secondo quanto dichiarato allora da Caltagirone, la decisione di uscire fu motivata da divergenze strategiche con la dirigenza della banca, oltre che dall’opportunità di partecipare all’aumento di capitale varato allora dall’Unicredit. Caltagirone partecipò in effetti al rafforzamento patrimoniale del 2012, incrementando la sua partecipazione da circa l’1% a circa il 2%, motivato dalla volontà di diversificare geograficamente il suo portafoglio. Nel febbraio 2017, con Jean Pierre Mustier succeduto come ceo a Federico Ghizzoni, Unicredit ha realizzato un altro aumento di capitale da 13 miliardi di euro, ma Caltagirone non vi ha partecipato, considerando la sua partecipazione puramente finanziaria. Nel complesso, stando ad alcune ricostruzioni di stampa non confermate, negli anni ha disinvestito parte della sua quota, registrando una minusvalenza di circa 48 milioni di euro.

L’ingresso nelle Generali risale invece al 2007, quando Caltagirone mise insieme una prima quota dell’1% poi gradualmente aumentata fino al 5,5% a partire da agosto 2021. Negli ultimi mesi, è salito ancora fino a circa l’8%. Gli acquisti più recenti sono stati realizzati strutturando contratti del tipo collar con opzioni, una tecnica che mira a neutralizzare le fluttuazioni del prezzo delle azioni Generali, consentendo così di acquisire diritti di voto con un rischio finanziario minimo. Caltagirone è entrato nel cda della compagnia triestina nel 2007 ed è stato nominato vicepresidente nel 2010, entrando nello stesso anno nel comitato investimenti. Nel settembre dello scorso anno ha poi firmato un patto di consultazione con Leonardo Del Vecchio e Fondazione Crt, lasciato poi nel gennaio scorso. In quell’occasione Caltagirone ha annunciato che presenterà da solo una lista per il rinnovo del consiglio, sollevando numerose critiche sulle strategie di crescita adottate dal management negli ultimi anni. Al 31 dicembre 2021, la plusvalenza implicita dell’investimento in Generali, considerando il prezzo medio di acquisto, è pari a circa 550 milioni di euro (inclusi i dividendi).

Gruppo De Agostini

Non si tratta di un investimento nel comparto bancario in senso stretto. A Trieste il gruppo De Agostini è arrivato quasi incidentalmente, quando nel 2006 cedette proprio alle Generali la Toro Assicurazioni, acquistata solo tre anni prima dalla Ifil della famiglia Agnelli. A dicembre di quell’anno arrivò la decisione di effettuare un investimento diretto (2%) nel gruppo assicurativo, quota considerata investimento finanziario con orizzonte di medio-lungo termine. Dalla compagnia odierna, in cui comunque la componente della controllata Banca Generali è in costante crescita sotto la guida di Gian Maria Mossa, il gruppo novarese si prepara a congedarsi proprio in queste settimane, dopo 16 anni, avendo annunciato a metà novembre 2021 l’avvio della dismissione dell’intera quota che possiede (scesa nel frattempo allo 0,14%, con un valore di carico unitario di 15,5 euro a fine 2020) attraverso il ricorso a uno strumento derivato. Attenzione però: il gruppo dei Boroli-Drago manterrà la titolarità dei diritti di voto fino all’assemblea di bilancio che a primavera rinnoverà il cda delle Generali e potrebbe quindi giocare un ruolo importante nella contesa in atto tra Mediobanca e il duo Caltagirone-Del Vecchio.

Leonardo Del Vecchio

Il suo ingresso nel comparto bancario avvenne nel 1992, quando acquisì una quota dell’1,2% nel Credito Italiano (oggi parte di Unicredit) nella privatizzazione della banca ex Iri. Nel corso degli anni, l’imprenditore ha modificato più volte la propria quota: nel maggio del 2012 era salito al 3%, riducendo poi il peso al 2% l’anno successivo per incassare 370 milioni, cifra che – come commentò allora lo stesso imprenditore – era servita a «recuperare un po’ di perdite» registrate sull’investimento. Attualmente, la quota azionaria dichiarata in trasparenza ammonta all’1,93%. All’inizio del 2021, in seguito alle dimissioni di Mustier dalla guida operativa della banca, assieme a Fondazione CariVerona e a Fondazione Crt Del Vecchio ha deciso di sostenere la nomina di Andrea Orcel come nuovo amministratore delegato. Da allora, le azioni di piazza Gae Aulenti hanno ripreso a crescere, con una progressione del +91,3% ai prezzi attuali, di cui ha beneficiato anche il pacchetto d’azioni in mano all’ex Martinitt che oggi vale poco più di 620 milioni.

Nel 2017 Unicredit aveva venduto la propria partecipazione del 13,4% nell’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) alla Fondazione Leonardo Del Vecchio, che in seguito aveva proposto agli altri soci dell’azienda creata da Umberto Veronesi di aumentare il capitale iniettando direttamente 500 milioni di euro. Il fermo diniego di gran parte dei grandi soci dello Ieo all’operazione, Mediobanca in testa, è stata una delle cause scatenanti che ha incrinato i rapporti tra il fondatore di Luxottica e Alberto Nagel. Nel settembre del 2019 Del Vecchio ha deciso di puntare forte su Piazzetta Cuccia, sfruttando il vuoto lasciato dal progressivo indebolimento dell’ex Patto di sindacato e blocco (trasformato in un mero accordo di consultazione) e l’uscita di alcuni azionisti storici come la Financère du Perguet di Vincent Bolloré, la Pirelli di Marco Tronchetti Provera e la Italmobiliare della famiglia Pesenti, mentre Unicredit di lì a poche settimane avrebbe azzerato l’intera partecipazione cedendo sul mercato il proprio 8,4% e recidendo così il legame diretto che assieme alle Generali e appunto a Mediobanca costituiva la cosiddetta galassia del Nord. L’ingresso nell’azionariato della merchant milanese avvenne con una quota del 6,94%, investimento che ai corsi borsistici di quei giorni valeva circa 586 milioni di euro, con i titoli che scambiavano in prossimità di 9,5 euro. La posizione – evidentemente costruita nel tempo, considerato che inizialmente il valore di carico di Mediobanca per Delfin era di 7,5 euro – è stata via via rafforzata. Con il 2% acquisito da Fininvest a metà maggio del 2021 per 174 milioni e altri successivi acquisti, l’imprenditore di Agordo ha raggiunto l’attuale 18,9% (1,7 miliardi di euro ai valori attuali) e con il via libera di Bce per spingersi fino al 19,9%. Per salire ulteriormente, Delfin deve avere altra autorizzazione dalla Bce, rivedendo probabilmente il proprio status di investitore puramente finanziario. Quanto alle Generali, il debutto nell’azionariato avvenne tra il 2006 e il 2007, con la Delfin che acquistò una quota dello 0,4% del Leone. Con l’assemblea dell’aprile 2007, Del Vecchio entrò, insieme a Caltagirone, nel cda della compagnia da cui si dimise nel 2011 in disaccordo con la gestione della compagnia di quel periodo. L’imprenditore ha poi incrementato il peso azionario negli anni, fino a raggiungere il 4,8% nell’agosto 2021 e negli ultimi mesi è ulteriormente salito fino a circa il 6,6%. Nel settembre scorso, Del Vecchio ha firmato un patto di consultazione con Fondazione Crt e Caltagirone, da cui quest’ultimo è poi uscito a fine gennaio 2022. Poco prima, Romolo Bardin, membro del consiglio di Generali in rappresentanza di Del Vecchio, si è dimesso da consigliere, in disaccordo su alcune scelte del cda e dei comitati a cui partecipa. Al 31 dicembre 2021, la plusvalenza implicita del suo investimento in Generali, considerando il prezzo medio d’acquisto, è pari a circa 600 milioni di euro (inclusi i dividendi).

Salvatore Ligresti

Un fortuito incontro all’aeroporto di Fiumicino e una conversazione che creò subito sintonia tra uno dei banchieri più influenti d’Italia, Enrico Cuccia, e un imprenditore siciliano particolarmente ambizioso, Salvatore Ligresti. Iniziò in questo modo un connubio trentennale che portò il costruttore e immobiliarista di Paternò a entrare nel patto di Mediobanca fin dalla sua origine, vale a dire nel 1988, quando l’istituto venne privatizzato sotto Antonio Maccanico e protetto da eventuali attacchi esterni proprio con la costituzione di un sindacato di blocco tra banche e soggetti privati. Fu anche grazie al capitalismo di relazione del salotto buono che Ligresti reinvestì negli anni gran parte dei proventi delle proprie attività imprenditoriali -nel frattempo evolute nell’insurance con la costituzione di FonSai e della controllata Milano Assicurazioni- accumulando partecipazioni in aziende e banche come Pirelli, Impregilo, Gemina, Alitalia, Rcs, Unicredit, Generali, Mps e naturalmente Mediobanca, dove l’ingegnere controllava una quota del 2%. Dopo una serie di vicissitudini giudiziarie innescate dall’inchiesta Mani Pulite e un successivo tentativo di rilancio sfumato, per salvare le rispettive posizioni debitorie nei confronti del gruppo Ligresti, Unicredit e Mediobanca organizzarono un salvataggio che culminò nel giugno 2012: la capogruppo Premafin approvò un aumento di capitale riservato a Unipol, che diventò il maggiore azionista di FonSai con l’81% diluendo i Ligresti a un peso marginale. La famiglia è stata definitivamente estromessa dalla gestione del gruppo a seguito delle indagini del Tribunale di Milano, che hanno portato prima al sequestro e poi alla confisca della quota societaria di proprietà della famiglia (circa il 20%).

I Malacalza

La famiglia Malacalza ha costruito la loro forza imprenditoriale nei superconduttori, nelle costruzioni e nell’acciaio. Nel marzo 2015, la famiglia ha poi deciso di reinvestire nel comparto bancario i 60 milioni di plusvalenza incassati due anni per l’uscita dalle holding di Pirelli – Camfin e Gpi – oltre a parte del ricavato di 500 milioni incamerato con il conferimento del 7% della stessa Pirelli all’opa lanciata da Marco Polo Industrial Holding sulla Bicocca. La scelta è caduta sulla banca simbolo di quella Genova dove i Malacalza radunano buona parte delle loro attività, ossia Carige, della quale hanno rilevato una quota del 10,5% da Fondazione Carige. La partecipazione è stata poi aumentata prima al 20,6%, dopo l’aumento di capitale del dicembre 2017 e poi al 27,6% nel secondo semestre del 2018. L’investimento totale è stato di circa 400 milioni di euro. Nel dicembre 2018 Malacalza si è astenuto nell’assemblea che ha deliberato un aumento di capitale di 400 milioni di euro per la ricapitalizzazione dell’istituto. Il mancato raggiungimento del quorum deliberativo nell’assemblea ha spinto Bce a imporre l’amministrazione straordinaria della banca ligure, decisione cui ha fatto seguito un congelamento dalle quotazioni in borsa che si è protratto per oltre due anni e mezzo. Nel settembre 2019, la famiglia non ha aderito all’aumento di capitale da 700 milioni di euro proposto dall’istituto e sottoscritto all’80% dal Fondo interbancario di tutela dei depositanti (Fitd), subendo quindi una significativa diluizione della partecipazione, al 2%, e registrando una perdita patrimoniale implicita di 380 milioni di euro. Dal 2015 a 2019, si sono succeduti quattro diversi amministratori delegati in Carige, anche per i contrasti con la famiglia. I Malacalza hanno fatto causa alla banca, al Fitd e alla Bce per l’affare Carige. Tuttavia, il ricorso è stato respinto dal Tribunale di Genova. Resta pendente un’altra causa intentata dalla famiglia contro la Bce alla Corte di giustizia europea, con una richiesta di 875 milioni.

I Maramotti

Quella dei Maramotti è una famiglia di imprenditori, fondatori della maison di moda Max Mara (fatturato 2020 di 1,2 miliardi di euro). Achille Maramotti rilevò nel 1983 la Banca Agricola commerciale, rinominandola Credito Emiliano. Oggi il Credem è una florida banca regionale che in borsa vale circa 2,1 miliardi di euro, con un’ottima redditività, solida qualità dell’attivo e forte presenza nei settori del risparmio gestito e del private banking. Dal 2010 la banca ha sempre distribuito dividendi crescenti. Ben diversa è la storia della famiglia con Unicredit. Achille Maramotti aveva investito anche nel Credito Romagnolo e quando questo finì nell’orbita del Credito Italiano, nel 1994 dopo l’opa, si trovò con il 2% delle azioni della banca,che poi sarebbe diventata Unicredit. Luigi Maramotti ha fatto parte del consiglio di amministrazione di UniCredit dal 2005 al 2015. Ma la partecipazione è via via diluita nel corso degli ultimi 15 anni e secondo alcuni calcoli dal 2011 al 2017 la famiglia ha registrato svalutazioni e minusvalenze dalla vendita di azioni Unicredit per 925 milioni di euro.

Francesco Micheli

Nel 1989, attraverso la controllata Finarte, Micheli entrò nel capitale di Interbanca acquistando una partecipazione (circa il 40%) composta principalmente da azioni privilegiate (senza diritto di voto nell’assemblea ordinaria) dal gruppo svizzero Sasea, per 130 miliardi di lire (65 milioni di euro). Nel corso degli anni incrementò la sua partecipazione, rilevando dalla Banca d’America e d’Italia un altro 9% per 85 miliardi di lire (44 milioni di euro). Alla fine del 1995 arrivò a detenere il 52% del capitale sociale, con le azioni ordinarie che pesavano per circa il 36%. L’investimento di Micheli aveva lo scopo di orientare la gestione di Interbanca verso il merchant banking, ma non riuscì mai a imporsi, poiché il controllo della banca rimase nelle mani di Giovanni Auletta Armenise, che aveva una quota del 44% ma costituita principalmente da azioni ordinarie. Nel 1995 Auletta Armenise cedette le sue azioni al Banco di Roma, seguito un anno dopo da Micheli, che incassò dal Banco di Roma 233 miliardi di lire (117 mln di euro). Considerando anche i dividendi incassati nel periodo (circa 5 mln di euro all’anno) l’investimento è stato comunque redditizio.

Romain Zaleski

L’uomo d’affari franco-polacco naturalizzato italiano, attraverso la sua società di investimenti Tassara, acquisì partecipazioni rilevanti in numerose banche e assicurazioni italiane. Prima del crollo di borsa del 2009, Zaleski arrivò a detenere il 5,8% di Intesa Sanpaolo, il 2,3% di Generali, il 2,2% di Mediobanca, il 2,0% di Monte dei Paschi di Siena e il 2,0% di Banco Bpm. Questi pacchetti erano acquistati tramite cospicui finanziamenti bancari garantiti dalle partecipazioni stesse. Con il crollo delle borse, la Tassara si trovò con il valore del patrimonio dimezzato e debiti per 5,5 miliardi. Si negoziò un accordo con le banche per ristrutturare l’indebitamento che ha richiesto undici anni di tempo per la sua realizzazione, con la cessione di tutte le partecipazioni finanziarie. Nel novembre 2019, dopo aver restituito quasi l’intero debito, la holding è tornata nelle mani di Zaleski. Ora il suo asset industriale più importante è il 74% (48% dei diritti di voto) della bresciana Metalcam, leader italiano nella produzione di pezzi forgiati a disegno in acciaio speciale.

Giovanni Zonin

Uo dei punti di riferimento italiani del settore vinicolo, nel 1996 Giovanni Zonin divenne presidente della Banca Popolare di Vicenza. Nel 2015 i vertici della banca sono stati accusati di aver concesso finanziamenti di favore a fronte dell’acquisto di azioni Popolare Vicenza in occasione degli aumenti di capitale del 2013 e del 2014. Nel 2015 Zonin si è dimesso e nel 2021 è stato condannato per falso in prospetto, ostacolo alla vigilanza e manipolazione delle azioni. Nel 2017 il governo Gentiloni ha ordinato la liquidazione coatta amministrativa della banca, con la contestuale cessione gratuita a Intesa Sanpaolo.

I Windisch Graetz

Mariano Hugo e Manfred Windisch Graetz sono due principi austriaci con investimenti nel settore finanziario, immobiliare, agricolo e delle costruzioni. Nel 1992, dopo la trasformazione del Banco di Napoli in società per azioni, i due acquisirono, attraverso le loro controllate Sogesco e Venturina, l’1% del capitale per 30 miliardi di lire (14 milioni di euro). Nel luglio 1996 il Ministero del tesoro, con il sostegno della Fondazione Banco di Napoli (azionista di maggioranza della banca), lanciò una vasta ricapitalizzazione della banca per 2.283 miliardi di lire (1,18 miliardi di euro) e la partecipazione dei due austriaci fu praticamente azzerata. Nel 2019 i fratelli Graetz hanno intentato quattro cause (ancora in corso) contro il governo italiano e contro 88 parlamentari ed ex parlamentari, chiedendo un risarcimento di circa 500 milioni di euro. (riproduzione riservata)
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