Si fa presto a proclamarsi green e sostenibili. Ma se dietro le credenziali ambientali di un’azienda non ci sono dati reali, c’è il rischio di doversi difendere in giudizio da una richiesta di risarcimento dei danni.
In un contesto di crescente sensibilità alle tematiche della sostenibilità, le imprese in cerca di capitali sono sempre più desiderose di affrontare le questioni ESG e di migliorare la propria reputazione rafforzando le proprie credenziali green. Per contro, rilasciare dichiarazioni imprecise o fuorvianti in merito alle caratteristiche verdi o ambientali di un prodotto, anche finanziario, può aprire la strada a pretese risarcitorie da parte di investitori e azionisti.
Ad oggi, in giurisprudenza non si rinvengono pronunce in merito a contestazioni di pratiche di Greenwashing finanziario, ma è lecito attendersi un aumento repentino di questa tipologia di controversie nei mesi a venire.
Ai sensi dell’art. 94, co. 8 TUF, un investitore potrebbe infatti richiedere il risarcimento dei danni all’emittente del prodotto finanziario, su cui incombe l’obbligo di predisporre il prospetto, sostenendo che quest’ultimo contiene informazioni false o alterate. Tale responsabilità potrebbe essere qualificata come precontrattuale, con la conseguenza che ricadrebbe interamente sull’investitore l’onere della prova degli elementi della fattispecie in questione (i.e. la condotta dell’emittente, i danni subìti, il dolo o la colpa dell’emittente e il nesso di causalità. Gli investitori potrebbero inoltre citare in giudizio l’impresa per inadempimento contrattuale ai sensi dell’art. 1218 cc nel caso in cui una dichiarazione resa in seno al contratto si rivelasse non veritiera. L’onus probandi dell’investitore sarebbe limitato alla prova del proprio titolo (i.e. l’accordo contrattuale sottoscritto incorporante le dichiarazioni non veritiere) e alla dimostrazione dei danni subìti. Gli emittenti, gli intermediari e degli altri operatori del mercato finanziario devono pertanto essere ben consapevoli delle criticità sopra descritte nel momento in cui pubblicizzano un prodotto finanziario.
Il Greenwashing può verificarsi anche nell’attività di reporting delle performance economiche delle aziende, specialmente se si tratta di reporting ambientale/di sostenibilità. Gli azionisti, infatti, potrebbero richiedere il risarcimento dei danni subìti a causa delle irregolarità e/o falsità di quanto riportato all’interno della Dichiarazione non finanziaria (che si sostanzia in una relazione sulla sostenibilità indicativa di prestazioni e risultati ambientali e sociali della società) che alcune grandi imprese debbono redigere ai sensi del dlgs 30 dicembre 2016, n. 254.
Nel valutare la rilevanza di questi rischi, l’incertezza giuridica viene progressivamente superata alla luce della più recente normativa europea. Il Regolamento UE 2019/2088 (Disclosure Regulation) intende armonizzare i requisiti di trasparenza relativi ai prodotti finanziari che perseguono obiettivi di carattere ambientale o sociale. Il Regolamento UE 2020/852 (Taxonomy Regulation) stabilisce un sistema di classificazione delle attività economiche sostenibili con l’intento di creare un linguaggio comune nel valutare se le attività economiche abbiano un impatto positivo sostanziale sull’ambiente. La relazione finale sul progetto di Norme tecniche di regolamentazione adottata nel 2021, offre una disciplina maggiormente dettagliata: i requisiti generali enunciati nel Reg. 2019/2088 sono declinati con contenuti concreti e l’indicazione di metodologie di divulgazione legata alla sostenibilità.
Allo stesso tempo, varie organizzazioni hanno contribuito ad apportare ulteriore chiarezza sul tema. L’International capital market association (Icma) ha pubblicato i Green bond principles, i Green loan principles e i Sustainability linked loan principles per assicurare una maggiore trasparenza nelle informazioni condivise con gli investitori.
Filippo Chiaves
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