Anna Messia
Come per le tasse su casa e immobili, sono mesi che mercato e lavoratori si domandano se e che cosa cambierà nella fiscalità sui fondi pensione e sulle polizze previdenziali. Mentre per quanto riguarda il mattone nei giorni scorsi dopo l’approvazione della delega fiscale il premier Mario Draghi ha subito chiarito che almeno fino al 2026 «nessuno pagherà di più o di meno rispetto a oggi», sul destino della previdenza complementare invece non è ancora arrivato il momento della verità. Nel documento approvato martedì 5 dall’esecutivo, piuttosto generico, non c’è alcun riferimento esplicito a un’eventuale modifica del sistema attuale di tassazione di fondi e polizze previdenziali, ma la questione è toccata in un un paragrafo del documento conclusivo dell’indagine che le commissioni Finanze di Camera e Senato, dopo più di 60 audizioni, hanno svolto prima dell’estate e affidato al governo per illustrare le linee guida che dovrebbe seguire l’azione di riforma fiscale. Tutti sono concordi sulla necessità di approfittare della riforma fiscale per semplificare e incentivare il risparmio previdenziale. Del resto si tratta di investimenti di lungo periodo che potranno costituire un sostegno per la ripresa dell’economia italiana. Ed è evidente che i giovani avranno sempre più bisogno di integrare la pensione pubblica con fondi e polizze per avere un assegno complessivo adeguato al termine della carriera lavorativa. Ma il dibattito si accende quando si entra nel merito degli interventi.
Che cosa cambiare. I parlamentari hanno suggerito al governo di allineare la tassazione italiana della previdenza complementare a quella resto d’Europa (le poche eccezioni sono Danimarca e Svezia). Un intervento che sembra gradito a tutti. Oggi i fondi pensione italiani hanno un prelievo di tipo Ett, ovvero godono di un’esenzione fiscale nella fase di accumulo fino a poco meno di 5 mila euro, mentre sono previste la tassazione dei rendimenti maturati con un’aliquota del 20% e la tassazione delle prestazioni con un’aliquota compresa tra il 15 e il 9%. Negli ltri Paesi il sistema prevalente è invece di tipo Eet, ovvero all’esenzione dei versamenti si aggiunge l’esenzione per i rendimenti, con il prelievo applicato solo sul montante finale. Una riforma di questo tipo potrebbe rappresentare un incentivo aggiuntivo per i lavoratori ad aderire alla previdenza complementare. In questo modo, sostengono i parlamentari, potrebbe ripartire la crescita di una sistema che, una volta finita l’onda del silenzio-assenso che nel 2007 aveva fatto impennare improvvisamente le adesioni, è al palo ormai da anni, con un patrimonio che a fine 2020 sfiorava quota 198 miliardi di euro. Il problema nasce però quando si entra nel dettaglio della proposta. I membri delle commissioni, per quanto riguarda in particolare la tassazione delle prestazioni, suggeriscono di applicare le aliquote Irpef ordinarie rispetto alle imposte attuali comprese tra il 9 e il 15%, trasformando però così un ipotetico vantaggio in una palese penalizzazione. A fare qualche calcolo è stato Franco Ragone, consulente finanziario esperto di previdenza complementare, che ha verificato le differenze tra i due regimi per un lavoratore con un reddito di 30.500 euro che versa 5.000 euro l’anno per 20 anni nel fondo pensione e riceve un rendimento medio annuo del 2,7%: con il sistema attualmente in vigore il vantaggio fiscale è di 44.050 euro, mentre con la proposta della commissione scenderebbe a 20.250 euro e a 32.600 euro in caso di applicazione di un’aliquota Irpef del 23%. «In pratica si perderebbe dal 54% al 26% delle agevolazioni attuali ottenendo un risultato opposto a quello di incentivare le adesioni», aggiunge Ragone.
Come uscire dallo stallo. Un suggerimento è arrivato da Sergio Corbello, presidente di Assoprevidenza, l’associazione italiana per la previdenza e l’assistenza complementare. «Si potrebbe pensare di applicare le aliquote Irpef», spiega, «ma allo stesso tempo sarebbe necessario prevedere un abbattimento del 2% della base imponibile per ogni anni di permanenza nel fondo pensione, per tenere conto che si tratta di investimenti di lungo periodo sottoposti a particolari vincoli». In pratica, nel caso di 40 anni di versamenti si pagherebbe l’aliquota Irpef di competenza solo sul 20% della prestazione alleggerendo considerevolmente il prelievo fiscale. Allo stesso tempo bisognerebbe innalzare la soglia di esenzione rispetto ai 5 mila euro attuali, suggerisce Corbello, e soprattutto avere il coraggio di incentivare i giovani a crearsi una pensione di scorta «con una sorta di Superbonus per gli under 30 che avrebbe di fatto l’effetto di raddoppiare i versamenti ai fondi pensione nei primi anni di adesione». In pratica a mille euro versati dovrebbe corrispondere un credito d’imposta di pari importo, da trasformare a cura del fondo in denaro contante e da versare sul conto individuale del giovane. Dal governo servirebbero evidentemente scelte coraggiose (e risorse), stando ben attenti a non demolire quanto fatto a partire dal 1999, quando il sistema della previdenza complementare ha preso il via. Non solo; ferme restando le proposte avanzate e da affrontare nel medio termine, nell’immediato c’è da aspettarsi almeno la razionalizzazione della tassazione dei rendimenti, «per i quali si dovrà passare dal criterio del maturato a quello del realizzato, come da tempo avviene per i fondi comuni di investimento», conclude Corbello. (riproduzione riservata)
Fonte: