Più istruiti dei genitori ma in fondo alla classifica europea per numero di laureati, i Millennials italiani (i nati tra il 1981 e il 1996) hanno poco tempo (e spesso pochi mezzi) per costruirsi una rendita previdenziale e garantirsi una vecchiaia serena
di di Anna Messia

I più anziani compiono 40 anni quest’anno, i più giovani ne hanno 24. È l’esercito dei Millennials, i nati tra il 1981 e il 1996. In Italia si tratta di 8,5 milioni di persone (dati Istat) che le banche e le multinazionali avevano studiato attentamente negli ultimi decenni perché sarebbero stati i risparmiatori del futuro e avrebbero dettato legge sui consumi. Ora il futuro è arrivato e quei ragazzi sono diventati adulti, con un po’ di incertezze in più (per lavoro e pensione) e qualche ricchezza in meno (sul fronte della casa, per esempio) rispetto ai genitori. Hanno vissuto il passaggio dalla lira all’euro e sono decisamente più istruiti della generazioni precedenti: il 76,2% dei 25-34enni ha almeno il diploma di scuola superiore e la percentuale è del 68,3% per i 35-44enni, in crescita rispetto al 57,7% dei 45-54enni e al 50,3% dei 55-64enni. Ma non abbastanza se confrontati con i coetanei dell’Ue, visto che gli italiani sono ancora penultimi tra i laureati europei, davanti solo ai rumeni: in Italia la quota di giovani laureati non cresce, ferma al 27%, mentre ed esempio la Francia e la Spagna hanno già superato l’obiettivo europeo del 40%. E, sempre secondo l’Istat, nonostante il limitato numero di giovani laureati in Italia le loro occasioni di trovare un lavoro sono solo poco minori rispetto ai valori medi europei: la quota degli occupati tra i 30 e 34enni laureati è quasi l’80% contro un valore medio europeo dell’87,7%.

Crisi e opportunità. Meno tecnologici di chi è venuto dopo di loro (i cosiddetti nativi digitali), i Millennials hanno dovuto dire addio al posto fisso prima ancora di conoscerlo. I più grandi di loro proprio quando stavano muovendo i primi passi nel mondo del lavoro sono stati obbligati a fare i conti con la crisi del 2008 e poi, a stretto giro, con quella del 2011. Poi è stata la volta del Covid, che ha colpito più di tutti proprio i giovani (e le donne), compresi i Millennials. Tra marzo 2020 e aprile 2021, secondo le rilevazioni di Banca d’Italia, nonostante le reti di protezione del governo tra blocco dei licenziamenti e sostegno al credito, la componente dell’occupazione a tempo determinato è calata del 5,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e le ripercussioni sono state maggiori proprio per i giovani (con cali dell’8% per la fascia 15-34 anni), assunti più di altri con questa tipologia di contratto. Un’incertezza che in questo caso accomuna i Millennials alla generazione successiva, visto che l’Italia ha anche un altro triste primato in Europa: il maggior numero di giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavora e non studia più. Secondo gli ultimi dati Eurostat, i cosiddetti Neet (Neither in employment not in education and training, niente lavoro o formazioni) nel Paese sono 2,1 milioni, pari al 23,3% dei giovani.
Ora molto può cambiare, perché queste persone hanno in mano il futuro dell’Italia. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con i suoi 240 miliardi ha messo proprio i giovani, la parità di genere e i divari territoriali al centro dell’azione.

Mattone impossibile. Intanto però, in attesa della ripresa economica, i Millennials hanno accusato un ennesimo colpo per il protrarsi dell’incertezza economica e fanno sempre più fatica a dare una prospettiva stabile al loro futuro, a partire dall’acquisto della casa che era stata il bene di riferimento dei loro genitori. Secondo Bankitalia, dal 2015 la quota di mutui di importo superiore a 75 mila euro erogati alla clientela sotto i 35 anni è stata un terzo del totale, ben sotto il livello del 2007, quando aveva toccato il 40%. Colpa di contratti di lavoro a termine e stipendi non adeguati ma anche di intermediari sempre più attenti al profilo di rischio dei clienti. Anche nei risparmi (come emerge dai dati raccolti da Gimme5) lo scopo dei Millennials è spesso raggiungere un obiettivo di breve termine, come l’acquisto di un’auto o di un viaggio, mentre progetti come casa e matrimonio si trovano rispettivamente al settimo e al decimo posto. Per non parlare delle pensioni: pochissimi hanno deciso di sottoscrivere un trattamento complementare, come emerge dai dati Covip. Tutti i Millennials andranno in pensione con il metodo contributivo puro (entrato in vigore per i nuovi assunti nel 1996) e il loro assegno pubblico sarà proporzionato ai contributi versati. La buona notizia è che, come emerge dalle previsioni di Itinerari Previdenziali, l’allungamento dell’età pensionabile avrà effetti positivi sui tassi di sostituzione netti della previdenza obbligatoria rispetto agli stipendi. Così una persona nata nel 1987 (oggi 34enne), che smetterà di lavorare a 70 anni con 39 anni e 2 mesi di contributi, avrà un tasso di sostituzione dell’80,7%, più alto di chi è nato nel 1978 (oggi 43 anni) e andrà in pensione a 69 anni e 5 mesi con quasi un anno in meno di contributi del 34enne, con un tasso del 76,6%. Un calcolo che il centro studi presieduto da Alberto Brambilla (con il motore di Epheso srl) ha elaborato ipotizzando un ingresso nel mercato del lavoro a 24 anni e un periodo complessivo di non contribuzione di 7 anni, includendo carriere a singhiozzo e precarietà. La speranza è che la crisi non allunghi questo periodo oltre i 7 anni, «ma anche che il calo della disoccupazione al 4% atteso per il 2040 faccia aumentare la competizione nel mercato del lavoro contribuendo alla crescita di salari e pensioni», sostiene Brambilla. E lo sperano tutti. (riproduzione riservata)
Fonte: