I consumatori sono pronti a comprare una vettura elettrica o ibrida. Il 51% dei clienti premium lascerebbe i marchi di fiducia in modo definitivo. La mobilità del futuro secondo Arthur D. Little
di Manuel Follis
Il Covid potrebbe rallentare l’espansione del fenomeno della sharing economy perché ha riportato al centro l’importanza del possesso dell’automobile. Le precedenti stime di vendite mondiali andranno però riviste al ribasso. A parte la Cina, che nel settore automotive resta un mondo a parte, in Occidente il mercato non è così pronto per l’acquisto di auto online e per le macchine a guida autonoma. Ma soprattutto il fenomeno delle auto elettriche potrebbe sconvolgere e rivoluzionare il mercato automobilistico più di quanto immaginiamo.
Sono alcune delle considerazioni che emergono da un report pubblicato di recente da Arthur D. Little «The Future of Automotive Mobility». Lo studio mette insieme le analisi della società di consulenza e i risultati di una survey effettuata su 8.500 clienti a livello globale. La sensazione, scrive la società nell’incipit del report, è che sia in arrivo un cambiamento significativo. Circa un terzo degli intervistati prevede infatti che il prossimo veicolo acquistato avrà un propulsore ibrido, cui si aggiunge un altro 12% pronto a prendere in considerazione l’acquisto di un auto full electric. Una transizione, quella verso i veicoli elettrici, che secondo Arthur D. Little potrebbe spingere per la prima volta clienti un tempo fedeli a un marchio a spostarsi verso altri produttori. Il 51% dei clienti di marchi premium si aspetta infatti di dover cambiare produttore in caso di un acquisto di auto elettrica. Attenzione però, perché nel report si sottolinea che una volta passati a un auto full electric difficilmente si torna indietro, il che implica che potremmo essere alle porte di una rivoluzione.
«Quello della fidelizzazione dei clienti è un aspetto che i costruttori dovranno considerare, anche i brand premium che godono storicamente di una fidelizzazione maggiore» spiega a MF-Milano Finanza Saverio Caldani, managing partner di Arthur D. Little Italia. Quando il mercato si muoverà verso nuovi prodotti, aggiunge, «sempre più clienti, anche premium, si guarderanno intorno e se il loro costruttore di fiducia non dovesse offrire un prodotto adeguato potrebbero spostarsi». Il punto quindi è capire se e soprattutto «quando» questo mercato si sposterà con decisione verso l’elettrico. Potrebbe non mancare molto, e probabilmente dipenderà dalla dinamica dei costi di costruzione. «È così», conferma Fabrizio Arena, partner di Arthur D. Little specializzato nel segmento automotive. Il costo per produrre un auto Euro-7 «nel giro di qualche anno rischia di diventare più alto del costo per costruire un’auto elettrica». I motivi? «Un mix tra le possibili penali connesse alla realizzazione di veicoli non a norma rispetto all’impatto ambientale e la progressiva riduzione dei costi per le auto elettriche, in particolare delle batterie», prosegue Arena.
Questo vale e varrà a livello globale, ma nel frattempo in Italia siamo indietro. Non hanno dubbi Caldani e Arena, c’è tanto da fare. «Attualmente in Italia ci sono 13 mila colonnine di ricarica, ma se guardiamo ai volumi di crescita attesi sul segmento elettrico questo valore andrà moltiplicato per 10 tra il 2025 e il 2030. Cioè mancano 130 mila colonnine e bisogna anche capire con che tecnologia svilupparle», spiegano i consulenti. La verità è che «in Italia fino a che non avremo un’entità che si prenderà cura dell’infrastruttura complessiva al servizio della mobilità elettrica rimarremo un passo indietro a molti Paesi europei», sostiene Caldani. «I problemi che affronta chi deve acquistare un auto sono due, da una parte quanta autonomia chilometrica garantisce la vettura, e questo devono affrontarlo i costruttori, dall’altra la capillarità dell’infrastruttura, e questo è un problema che dovrebbe essere anche politico, non solo delle società che producono energia». (riproduzione riservata)
Gli aerotaxi sono pronti al decollo: saranno la prossima Tesla?
Macchine volanti che strombazzano nei cieli delle nostre città. Non si tratta di fantascienza ma della nuova frontiera della mobilità urbana: gli Evtol, ossia velivoli a decollo verticale e a propulsione elettrica pensati per il trasporto a bassa quota di persone e merci in aree ad elevata densità. Una tecnologia con svariate applicazioni, dal civile al militare passando per logistica, turismo e sanità, che sembra pronta a invadere il mercato (costruzione dei vertiporti permettendo). Morgan Stanley stima ad esempio un volume d’affari di 1.500 miliardi di dollari al 2040 mentre Deloitte prevede che già entro i prossimi quattro anni il settore varrà nei soli Usa 17 miliardi di dollari per poi toccare nel 2035 i 115 miliardi, di cui 58 dal ramo passeggeri. Del resto, come spiega il gruppo di consulenza, sono più di 200 le aziende nel mondo al lavoro su un prototipo, con oltre una dozzina di progetti in fase avanzata che hanno raccolto investimenti privati per circa 2 miliardi di dollari. Insomma, che si tratti di elicotteri, aerei o droni, che siano dotati di pilota oppure sfruttino la guida autonoma, tutti vogliono salire a bordo degli aerotaxi. Ultima in ordine di tempo l’italiana Atlantia, che ha appena investito 15 milioni di euro nei mini-elicotteri elettrici della tedesca Volocopter. Il progetto è tra i più maturi e non a caso all’aumento di capitale da 200 milioni hanno partecipato anche il maxi-gestore BlackRock, il produttore di pneumatici Continental e la nipponica Ntt, oltre ai precedenti soci tra cui la cinese Geely, Daimler e Db Schenker. La startup vale 525 milioni di euro (stime PitchBook), lavora per essere autorizzata al volo entro due anni e sta già testando i velivoli a Parigi e Singapore. Non solo Europa però, perché anche gli Usa sono della partita. È di Palo Alto la Archer Aviation che ha stregato Stellantis. La società si quoterà a Wall Street con una valutazione di 3,8 miliardi di dollari e il gruppo italofrancese parteciperà all’affare rilevando un pacchetto di nuove azioni da 600 milioni di dollari insieme al braccio di venture capital di Exor e a nomi del calibro di Mubadala e Warner Music. Un deal che frutterà alla startup 1,1 miliardi da usare per mettere il turbo ai suoi mini-elicotteri elettrici a zero emissioni: il decollo è previsto entro l’anno, la produzione in serie e a prezzi di mercato (50 dollari per 20 km di volo) arriverà nel 2024 e per il 2030 l’obiettivo è sfornare 2.300 velivoli per 12 miliardi di ricavi. Sempre dalla California viene un altro operatore precoce: Joby Aviaton, che ha già intrapreso l’iter di certificazione dell’agenzia Usa di controllo sui voli. Fresca dell’acquisto di Elevate da Uber, Joby punta a lanciare entro il 2024 un servizio di aerotaxi elettrico quadriposto con pilota, arrivando a 2 miliardi di ricavi nel 2026. Per finanziarsi si quoterà al Nyse tramite reverse merger: l’ipo valuterà l’azienda 6,6 miliardi di dollari e le fornirà 1,6 miliardi da investitori come BlackRock, Fidelity e Baillie Gifford, che si uniranno ai soci Toyota, Intel e alla stessa Uber. Ma la concorrenza non mancherà neppure in Europa, dove a sfidare Volocopter saranno gli aerei elettrici della connazionale Lilium, 340 milioni di euro raccolti per una valutazione stimata tra 750 milioni e un miliardo d’euro, e quelli della slovena Pipistrel. Senza dimenticare l’Italia, dove qualcosa inizia a muoversi: Leonardo ha fatto decollare a febbraio il primo drone elettrico per merci pesanti, mentre Always annunciava la creazione a Milano del primo vertiporto nazionale entro il 2024. L’unica società già quotata è la cinese Ehang: produce aerotaxi biposto self driving e al Nasdaq capitalizza 2,5 miliardi di dollari. Una circostanza che non stupisce visto il ruolo centrale giocato dal continente asiatico. Oltre che in Cina, molti produttori stanno infatti emergendo anche nel sudest asiatico e in Corea del Sud, dove il governo ha creato una struttura pubblica-privata ad hoc di cui fa parte anche Hyundai. Un progetto simile a quelli in cui in occidente sono coinvolte Audi, che collabora con la divisione City di Airbus, e Porsche, al lavoro con Boeing su un veivolo per il mercato premium della mobilità urbana. (riproduzione riservata)
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