di Didier Saint-Georges*
Oggi, nel mondo degli investimenti, quasi tutto (i tassi, ma anche i corsi azionari e il destino dei circa 18.000 miliardi di debito sovrano con tasso negativo) dipende da come si evolverà l’inflazione. E, per la prima volta da oltre dieci anni, questo suscita preoccupazione. L’ultima volta che gli investitori hanno provato un timore simile risale al 2009, quando le banche centrali per la prima volta hanno adottato la politica del Quantitative easing, che consisteva nel sostenere l’attività economica riducendo i tassi di riferimento e stampando moneta per acquistare i titoli di stato detenuti dalle banche. Questa massiccia creazione di moneta ha ricordato l’avvertimento lanciato da Milton Friedman, secondo cui stampare moneta alimenta la domanda, determinando un aumento dei prezzi al consumo.
Dopo dieci anni di Qe l’inflazione non solo non si è impennata, ma continua a scendere al punto di far temere una lenta deriva verso la deflazione. Il denaro creato non è potuto affluire all’economia reale attraverso le banche, ma è rimasto bloccato nel sistema finanziario (le banche, indebolite e soggette a una sorveglianza rigorosa, non erano disposte a concedere prestiti e il settore privato tendeva a ridurre il debito piuttosto che ad aumentarlo). Quindi questa manna monetaria ha favorito principalmente i prezzi degli asset finanziari, che hanno registrato una forte inflazione. Nell’ultimo decennio tale meccanismo ha aggravato le disuguaglianze tra bassi redditi e grandi investitori, alimentando una crescente ribellione contro la gestione di un problema economico esclusivamente attraverso la politica monetaria. A fronte di questo contesto, nel 2020 l’attività economica si paralizza. Ancora una volta le banche centrali scendono in campo per evitare il peggio e ancora una volta i mercati finanziari ne colgono i benefici. Ma i governi questa volta passano il Rubicone. Abbandonano qualsiasi velleità di ortodossia di bilancio e, al prezzo di un deficit e di un sovraindebitamento senza precedenti, si assumono l’onere di sostenere direttamente il settore privato. La liquidità questa volta non resta bloccata ma riesce a raggiungere imprese e risparmiatori (per quanto decurtato, il reddito percepito ha determinato, per mancanza di occasioni di spesa, un repentino aumento del tasso medio di risparmio dei consumatori). A questo punto sorgono due domande. La prima riguarda il breve termine: dopo che una campagna di vaccinazione sufficientemente ampia avrà permesso la riapertura delle economie, il risparmio accumulato innescherà un recupero, con un rinnovato desiderio di consumare che spingerà i prezzi al rialzo? Questa reazione potrebbe essere ulteriormente ampliata da un effetto di base molto potente: supponiamo che i consumi riprendano nel secondo trimestre 2021, la velocità alla quale aumenteranno rispetto alla primavera del 2020 potrebbe essere esplosiva. Questo scenario è del tutto verosimile. Sarà tuttavia di breve durata: la debolezza del quadro occupazionale e la probabile persistenza di un clima di apprensione rischiano di frenare i consumi, ma soprattutto, il denaro risparmiato sarebbe stato speso in servizi (il che rende questa recessione molto diversa dalle recessioni classiche). E purtroppo la maggior parte dei servizi non consumati non potrà essere recuperata. La seconda domanda riguarda il lungo periodo. Il coinvolgimento dei governi nel 2020 potrebbe essere interpretato come un contraltare del cambio di regime iniziato quarant’anni fa con l’era Reagan-Thatcher: retromarcia dello Stato, riduzione delle imposte, della regolamentazione e soprattutto dell’inflazione. Questa eventualità è nettamente rafforzata dal recente cambio ai vertici a Washington. L’amministrazione Biden, in particolare con la nomina di Janet Yellen al ruolo cruciale di segretario al Tesoro, ha adottato un programma volto principalmente a ridurre le disuguaglianze, grazie alla ridistribuzione della ricchezza a favore delle classi più deboli, in particolare attraverso la fiscalità. Anche l’impegno di Biden a favore di un’economia più verde è sostanziale e giustificato, ma anche potenzialmente inflazionistico, questa volta non attraverso l’espansione della domanda bensì per l’aumento dei costi. Si profila forse una rivincita contro Wall Street? Una tendenza deflazionistica durata quarant’anni (o anche solo dieci, volendo risalire al 2009) non può invertirsi dall’oggi al domani.
Le forze deflazionistiche della tecnologia, della demografia e del sovraindebitamento restano potenti. Roma non ha cambiato regime nel momento in cui le truppe di Cesare hanno passato il Rubicone. Ma sarà difficile una retromarcia dei governi dopo l’abbandono dell’ortodossia di bilancio, in un contesto di forte pressione popolare. I mercati potrebbero iniziare da quest’anno ad anticipare un cambio di regime orientato verso una maggiore crescita, ma con margini e libertà inferiori per le società; maggiore reddito, ma più inflazione per i lavoratori dipendenti. E di sicuro maggiore complessità per i risparmiatori. (riproduzione riservata)
*membro del comitato strategico
di investimento di Carmignac