Pagina a cura di Stefano Loconte e Giulia Maria Mentasti
Mix di alert e rassicurazioni dalla Cassazione sul fronte 231: è quanto emerge dalla sentenza 28210 con cui la sesta sezione penale ha fornito chiarimenti sul controverso rapporto tra responsabilità dell’ente ex dlgs 231/2001 e reato presupposto che alla suddetta responsabilità dà origine, precisando come la società resti responsabile anche se il reato nei confronti della persona fisica è prescritto, ma al contempo il giudice non possa aderire aprioristicamente alla contestazione mossa alla persona fisica.
Specificamente, da un lato, con questa recente sentenza la Cassazione ha evidenziato che, anche se il reato presupposto si è nel frattempo prescritto, rimane salva la responsabilità dell’ente. E ciò in applicazione della previsione di cui all’art. 8, dlgs 231/2001 secondo cui tale responsabilità sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile o quando il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.
Al contempo, tuttavia, la Cassazione ha dato dimostrazione di un approccio molto garantista, escludendo che nell’accertare la responsabilità dell’ente ci si possa automaticamente e passivamente basare sulla contestazione che era stata formulata nei confronti della persona fisica.
Il giudice deve pertanto procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso, vaglio che però a propria volta non può prescindere da una verifica quantomeno incidentale della sussistenza del fatto di reato.
Questo ha portato nel caso in esame a un’assoluzione dell’ente. In particolare, la contestazione di corruzione cosiddetta «propria» mossa all’imputato è stata ritenuta errata dovendo i fatti essere qualificati diversamente; ma poiché la corretta contestazione all’epoca di commissione dei fatti non rilevava penalmente, ecco che anche l’ente ne è uscito salvo.
Il caso. Nel caso di specie, la Corte di appello di Lecce aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di Brindisi aveva ritenuto una società, operante nell’ambito del trattamento e smaltimento dei rifiuti, responsabile dell’illecito di cui all’art. 25, comma 2, dlgs 231/2001, in relazione al reato di corruzione ex art. 319 c.p. commesso dal consigliere di amministrazione dello stesso ente e da un chimico componente di comitato tecnico della Provincia di Brindisi.
In particolare, quest’ultimo, secondo l’impostazione accusatoria, si sarebbe fatto conferire dal suddetto consigliere vari incarichi di natura professionale e remunerativi, garantendo, quale contropartita, che il comitato tecnico provinciale esprimesse parere favorevole sulle istanze presentate dalla predetta società alla Provincia di Brindisi. Quanto alla condanna degli imputati persone fisiche, il reato si era invece nel frattempo prescritto.
Avverso la sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’ente, rilevando, per quanto più ora interessa, violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza dell’atto contrario ai doveri di ufficio, requisito essenziale per l’integrazione del reato contestato di corruzione cosiddetta «propria» di cui all’art. 319 c.p., non essendo al contrario individuabile secondo la difesa alcuna illiceità/irregolarità nel parere reso dal comitato tecnico.
Con riguardo poi alla possibilità di riqualificazione del caso in esame come corruzione cosiddetta «impropria» di cui all’art. 318 c.p. (configurabile laddove, pur senza porre in essere alcun atto contrario ai doveri d’ufficio, per l’esercizio delle funzioni o dei poteri si percepiscano indebitamente denaro o altra utilità), si evidenziava come mancasse la qualifica soggettiva, essendo detta norma applicabile, secondo il disposto dell’art. 320 c.p. nella formulazione vigente all’epoca dei fatti, solo ed esclusivamente al pubblico ufficiale e al pubblico impiegato, qualità pacificamente non rivestite dall’imputato che quale componente del comitato tecnico provinciale era inquadrabile come incaricato di pubblico servizio.
Rapporto tra reato e 231. Dunque, si anticipa sin d’ora che la Suprema corte ha ritenuto di accogliere il ricorso; ma ciò che rende la pronuncia meritevole di segnalazione sono i chiarimenti, rigorosi e al contempo garantisti, che la Cassazione ha colto l’occasione per fornire sul dibattuto rapporto tra responsabilità dell’ente ex dlgs 231/2001 e reato presupposto che alla suddetta responsabilità dà origine, molto utili in un momento in cui le imprese sono a gran voce chiamate all’aggiornamento dei propri modelli organizzativi.
In primo luogo, si è precisato come in tema di responsabilità delle società, in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. b), dlgs 231/2001, deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso.
Il summenzionato art. 8 stabilisce, infatti, che la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile o quando il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia. Tuttavia, ciò non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato (Cass. pen. n. 21192/2013).
Ancora in tema di responsabilità 231, la separazione delle posizioni processuali di alcuni degli imputati del reato presupposto per effetto della scelta di riti alternativi non incide sulla contestazione formulata nei confronti dell’ente, né riduce l’ambito della cognizione giudiziale; da ciò consegue che dall’assoluzione di uno degli imputati del reato presupposto, non per insussistenza del fatto, non discende automaticamente l’esclusione della responsabilità dell’ente, pur con la doverosa precisazione per cui, anche in questo caso, il giudice è tenuto a procedere a una verifica del reato presupposto alla stregua dell’integrale contestazione dell’illecito formulata nei confronti della società (Cass. pen., n. 49056/2017).
La decisione della Cassazione. Tutto ciò precisato, nel caso in esame la Suprema corte ha rilevato l’insussistenza del reato presupposto, con particolare riguardo alla nozione di atto contrario ai doveri d’ufficio e alla corretta qualificazione della condotta idonea a integrare l’ipotesi delittuosa.
Specificamente, la Cassazione ha confermato il superamento (già registrato con Cass. pen. 4486/2018) di quel rigido orientamento giurisprudenziale secondo cui sarebbe stato sufficiente, ai fini della configurabilità della ipotesi di corruzione cosiddetta «propria», un complessivo asservimento della funzione istituzionale alle ragioni private in cambio di utilità, senza che fosse necessaria la prova della effettiva condotta illecita. Infatti, come sottolineato dai giudici di legittimità, aderendo a tale impostazione si sarebbe inopportunamente finiti per centrare il disvalore della fattispecie sul patto criminoso e per spostare l’antigiuridicità del comportamento del funzionario dai profili relativi alla condotta (la non conformità ai doveri di ufficio) a quelli che riflettono maggiormente l’elemento psicologico del reato.
Dunque, escluso di seguire la più dura linea interpretativa, nella vicenda concreta non era stata accertata alcuna irregolarità nel parere tecnico del comitato provinciale in cui sedeva il «corrotto», né alcun vero e proprio atto contrario ai doveri d’ufficio da parte dell’incaricato di pubblico servizio.
Al più, la condotta incriminata sarebbe stata inquadrabile nella suddetta meno grave fattispecie di corruzione cosiddetta «impropria» ex art. 318 c.p.; reato che, pur essendo anch’esso ricompresa nel catalogo «231», tuttavia nel caso di specie era stato commesso prima dell’entrata in vigore della legge 190/2012, e pertanto avrebbe potuto essere applicato solo al pubblico ufficiale o al pubblico impiegato, qualifica soggettiva pacificamente estranea al membro del comitato tecnico.
Da qui l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per insussistenza del fatto.
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