Dal 2021 saranno applicabili le raccomandazioni Esma che puntano a limitare le commissioni di incentivo dando ai sottoscrittori più trasparenza. Nel mirino ci sono i fondi di diritto estero. Ma ci sono ancora alcuni nodi da sciogliere
di Paola Valentini
La svolta tanto attesa per le commissioni di performance dei fondi comuni ha i giorni contati. Le linee guida dell’Esma, che entreranno in vigore a inizio 2021, puntano a superare le differenze di disciplina tra i vari Stati, alcuni dei quali hanno regole che finora hanno consentito una applicazione poco trasparente da parte delle sgr di questi costi percentuali applicati sull’over-performance del fondo rispetto al suo indice (benchmark) o, in termini assoluti, sull’incremento del valore della quota rispetto ad un valore precedente della quota stessa (si affiancano alle commissioni di gestione annuali che sono invece prelevate tutti gli anni in percentuale sul patrimonio). «È la fine di un’era», afferma Mediobanca Securities in un recente report sul tema. L’intervento dell’autorità di vigilanza dei mercati finanziari Ue ha l’obiettivo di «assicurare che i modelli di commissioni di performance utilizzati dalle società di gestione rispettino i principi di onestà ed equità, in modo tale da evitare che costi indebiti vengano addebitati al fondo e ai suoi investitori», spiega Esma. Regole più vicine alle esigenze dei risparmiatori anche sul fronte della comunicazione perché «gli orientamenti mirano a stabilire uno standard comune in relazione alla divulgazione delle commissioni di performance agli investitori», aggiunge l’autorità di vigilanza sui mercati finanziari Ue.
L’obiettivo di Esma è fare sì che le commissioni di performance siano allineate il più possibile all’interesse degli investitori che è quello di avere gestori che realizzino rendimenti migliori rispetto ai propri benchmark. L’intervento è stato dettato dalla preoccupazione che queste commissioni siano applicate anche quando il money manager non apporta un reale valore aggiunto, affiancando costi variabili alle commissioni di gestione fisse. Proprio questi timori hanno indotto quasi 50 anni fa, nel 1971, il Congresso Usa, dietro raccomandazione della Sec, a limitare le commissioni di incentivo nei fondi statunitensi. I quali, per legge, sono tenuti a usare una particolare forma di commissione d’incentivo nota come commissione di performance simmetrica in base alla quale la fee deve essere definita rispetto a un indice di riferimento (benchmark), con aumenti nelle commissioni per performance superiori all’indice e, specularmente, diminuzioni nelle commissioni per rendimenti inferiori. Nella sostanza si stima che oggi meno dell’1% dei fondi Usa applichi commissioni di performance, pari al 10% del patrimonio. Una situazione ben diversa in Europa dove ogni Paese ha una propria disciplina più o meno dettagliata sulle commissioni di performance. Tra tutti l’Italia ha una delle normative più rigide grazie a un intervento della Banca d’Italia del 2006 che però vale soltanto per i fondi di diritto italiano, lasciando così scoperta tutta l’area dei prodotti di diritto estero. «Le nuove disposizioni potrebbero avere quindi importanti ricadute sui fondi esteri venduti in Italia di gruppi internazionali ma soprattutto sui fondi detti roundtrip, cioè quei fondi di società italiane che hanno da anni una base in Paesi come Irlanda e Lussemburgo e che hanno beneficiato di margini di manovra decisamente ampi nell’applicare queste commissioni. A differenza di quelli di altri Stati membri, i fondi di diritto italiano invece hanno già da anni regole relativamente stringenti grazie all’intervento della Banca d’Italia che nel 2006 è scesa in campo proprio per circoscriverle», afferma Andrea Rocchetti, head of investment advisory di Moneyfarm. Fino appunto all’intervento attuale dell’Esma. «Se la limitazione delle commissioni di performance avrà l’effetto di far aumentare le commissioni di gestione allora il timore che in realtà si trattava di costi fissi mascherati da variabili viene confermato», prosegue Rocchetti.
D’altra parte, come si evince dall’analisi di Mediobanca Securities sui bilanci 2019 delle maggiori dieci società di gestione italiane (per un totale di 1.000 miliardi di asset, poco meno della metà di tutta l’industria dell’asset management italiano), le commissioni di performance hanno un peso rilevante nel conto economico di questi asset manager: solo lo scorso anno hanno sfiorato quota un miliardo, al netto dell’effetto fiscale si tratta del 36% degli utili netti totali (2,37 miliardi). Anche se con differenze di peso notevoli: da Fineco che non le applica fino ad Azimut e Banca Mediolanum per le quali nel 2019 erano oltre il 60% (rispettivamente al 66% e al 62%). Tra le altre quotate in Banca Generali il rapporto tra oneri di incentivo netti e utili 2019 era al 49%, Anima al 23%. Ma come emerge dai dati al 30 settembre 2020 raccolti da MF-Milano Finanza (si veda articolo a lato), quest’anno Mediolanum ha visto il peso dei ricavi da commissioni di performance sugli utili scendere in modo netto perchè già dal 2019 era intervenuta nei fondi di diritto estero per allinearsi ai principi di maggiore equità richiesti in precedenza da Iosco (l’associazione internazionale delle autorità di vigilanza dei singoli Paesi). Anche Azimut ha iniziato lo scorso anno un adeguamento nei suoi fondi lussemburghesi anche se non ha ancora completato il processo. Mentre Banca Generali, che ha alcune famiglie di fondi nel Granducato, ha detto che a breve annuncerà il repricing. Anima è più allineata alla normativa Esma avendo una fetta maggiore di prodotti di diritto italiano. C’è infatti da dire che le sgr che hanno nella propria gamma più fondi di diritto italiano presentano anche una minore incidenza delle fee di incentivo e ciò riflette le regole più rigide imposte dalla Banca d’Italia 14 anni fa.
In ogni caso per tutti con le nuove regole Esma «diventerà più difficile incassare le performance fee», sottolinea lo studio di Mediobanca Securities perché l’autorità introduce un prelievo di questi costi con frequenza minima di 12 mesi a fronte di operatori che le addebitano anche ogni tre mesi o addirittura ogni mese, prevede un orizzonte di cinque anni che serve a evitare incassi di commissioni in caso di perdite significative in un lasso temporale breve e mette nel mirino l’anomalia presente ancora oggi in alcuni fondi azionari che utilizzano un indice monetario come parametro sui cui calcolare la fee.
La prima applicazione degli orientamenti dell’ente di vigilanza del mercato finanziario europeo scatterà il 5 gennaio prossimo, «data entro la quale le autorità competenti dovranno comunicare all’Esma la propria conformità o l’intenzione di conformità agli orientamenti, viceversa, dovranno indicare le ragioni della mancata conformità», aggiungono da PwC Tls. Al 5 gennaio si arriva perché in quella data scadono i due mesi di tempo dalla data di pubblicazione degli orientamenti sul sito web dell’Esma in tutte le lingue ufficiali dell’Ue. Le traduzioni infatti sono state rese note il 5 novembre scorso dopo sette mesi dalla pubblicazione della versione originale in inglese (avvenuta il 3 aprile scorso). Ma c’è un distinguo da fare tra comparti nati dopo il 5 gennaio e quelli preesistenti. «I gestori di eventuali nuovi fondi creati dopo la data di applicazione delle linee guida con una commissione di performance, o di eventuali fondi attivi prima della data di applicazione che introducono una commissione di performance per la prima volta dopo tale data, devono conformarsi immediatamente alle presenti linee guida in relazione a quei fondi», ricorda Rocchetti. Invece «i gestori di fondi con una commissione di performance esistente prima dovrebbero applicare tali linee guida in relazione a tali fondi entro la fine del 2021», spiega Rocchetti.
Sono cinque i punti fondamentali delle linee guida Esma. I primi due si focalizzano sulle caratteristiche dei metodi del calcolo delle commissioni di performance e sulla coerenza tra queste e la politica di investimento. In quest’ultimo caso, quindi, un fondo azionario non dovrebbe avere come parametro per il calcolo un indice monetario, come a volte accade, mentre un fondo flessibile, che in quanto tale non ha benchmark, dovrebbe utilizzare un calcolo del tipo high water mark, in cui l’investitore non paga la performance fee fino a quando il valore del fondo non supera il massimo mai raggiunto in precedenza, ovvero l’high watermark assoluto o la massima differenza rispetto al benchmark, l’high watermark relativo. In assenza della clausola high watermark il sottoscrittore rischia di potenzialmente pagare delle commissioni di performance solo per recuperare le perdite, senza guadagnare. Le altre indicazioni chiave riguardano la frequenza per la definizione della commissione di performance e il successivo pagamento al gestore (che dovrebbe essere non più di una volta l’anno per evitare prelievi troppo favorevoli per la sgr, con l’eccezione dei fondi che hanno la clausola high water mark per i quali il periodo di riferimento coincide con la vita del comparto) e il recupero di performance negative (qualsiasi perdita registrata durante un periodo pari ad almeno cinque anni dovrebbe essere recuperata altrimenti non sarà possibile prelevare la commissione di performance). La commissione di performance può però anche essere addebitata nel caso in cui il fondo abbia battuto il benchmark di riferimento con una performance negativa. Ma, come quinto punto, gli investitori dovrebbero essere adeguatamente informati dell’esistenza di commissioni di performance e del loro potenziale impatto sul rendimento dell’investimento, anche nel caso in cui un fondo consenta il pagamento di una commissione di performance in periodi di rendimenti negativi.
L’informativa ai risparmiatori è importante perché la trasparenza sui costi voluta dalla Mifid II in realtà lascia alcuni campi scoperti: «Nei rendiconti costi e oneri che gli operatori finanziari devono mandare a partire dallo scorso anno ai propri clienti, sia le commissioni di performance che quelle di gestione sono fornite solamente in forma aggregata», dice Rocchetti. Quindi il cliente «riceve solo il costo complessivo a meno che non richieda esplicitamente il report analitico con i dettagli anche per singolo prodotto», ricorda Rocchetti. In tal caso le commissioni di performance sono conteggiate all’interno della voce costi accessori mentre le commissioni di gestione sono indicate all’interno delle spese correnti.
L’Esma si aspetta che i vari Stati (per l’Italia competente è Banca d’Italia) si adeguino integrando queste indicazioni nei propri quadri giuridici e che poi controllino il loro rispetto da parte di tutte le sgr. «Anche se restano margini di incertezza dovuti al fatto che l’innesco al cambiamento deriva da una raccomandazione e non da una direttiva per cui non è detto che tutti si adegueranno alle nuove indicazioni dell’Esma che entreranno in vigore a inizio 2021», interviene Massimo Scolari, presidente di Ascosim. Le regole di Banca d’Italia, pur essendo più rigide rispetto ad altri Paesi Ue, non sono però completamente allineate all’Esma, quindi anche essa dovrà pronunciarsi al pari delle altre banche nazionali entro le tempistiche indicate. Con una avvertenza finale: «Bisognerà che si chiarisca se il mercato italiano è disponibile ad accogliere fondi che dopo il gennaio 2022 avessero commissioni non aderenti alle condizioni Esma. Nella stragrande maggioranza tutti gli Stati si conformeranno, ma magari potrebbero emergere autorità che dicono: noi non siamo d’accordo. In questa ipotesi i fondi quella giurisdizione non sarebbero in linea con le regole europee e ci si chiede se potranno comunque entrare in Italia, su questo punto le autorità italiane dovrebbero essere chiare. Anche se tutti si conformassero, poi, non è detto che il singolo gestore si adegui e accetti questi cambiamenti che derivano da raccomandazioni e non da imposizioni di legge», conclude Scolari. (riproduzione riservata)
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