In origine doveva essere la fine del 2020, ma le particolari situazioni di crisi sanitaria hanno fatto slittare a metà 2021 l’obiettivo di arrivare in sede Ocse a una soluzione condivisa sulla webtax.
A pesare sul rallentamento delle trattative non è solo il Covid-19, ma ci sono anche da tenere in conto le divergenze politiche emerse nel negoziato che coinvolge 137 Paesi.
Sono stati fatti “consistenti progressi”, ma non è stato ancora trovato un accordo finale sulla riforma della fiscalità internazionale che risponda alle sfide della digitalizzazione dell’economia, indica un report di aggiornamento di una certa dimensione (circa 750 pagine) pubblicato dall’Ocse in vista delle riunioni del G20 che esamineranno il problema. Di certo sono state identificate le questioni politiche e tecniche, dove restano da colmare le divergenze di opinione e i prossimi passi da fare. La comunità internazionale ha “concordato di continuare a lavorare per un’intesa entro la metà del 2021” e ha approvato il nuovo schema (Blueprint) del progetto di tassazione affinchè sia sottoposto alla consultazione pubblica.
La prospettiva è quella di una proroga del mandato da parte del G20 per far continuare le discussioni l’anno prossimo, quando sarà l’Italia ad assumere la presidenza del G20, ora nelle mani dell’Arabia Saudita.
La riforma della fiscalità sui colossi del mondo digitale rientra nel progetto Beps (base erosion and profit shifting), che mira ad assicurare che le tasse siano pagate dove avvengono effettivamente le attività economiche e contrastare quindi il trasferimento degli utili societari verso Paesi con una fiscalità agevolata, o addirittura inesistente, a danno della base imponibile in molti Paesi in cui grandi conglomerati globali operano attraverso controllate. Nella sostanza l’obiettivo è quello di definire quanto, dove e come tassare i giganti del web. Il nodo principale appare ancora la posizione degli Usa, ma vari Paesi avrebbero sollevato questioni di stampo politico.
A fine 2019 il ministro del Tesoro Usa Steven Mnuchin ha proposto di introdurre una condizione,
definita “safe harbour”, che risulterebbe nel principio di opzionalità della tassazione e permetterebbe quindi ai colossi digitali, per lo più statunitensi, di non sottoporsi alla nuova tassa.
La proposta è stata accolta con scetticismo da molti altri Paesi, indica il rapporto. Nonostante i mesi trascorsi e i dettagli forniti dagli Usa, restano aperte questioni tecniche e soprattutto la questione di fondo, ovvero che “un approccio opzionale renderebbe vani gli obiettivi della riforma fiscale nel caso le grandi multinazionali non optassero per le nuove regole” e questo “creerebbe incentivi perversi” per l’’introduzione di misure unilaterali o per aumentarne il peso dove già ci sono.