di Luca Gualtieri
Anche senza la proroga di due giorni disposta lunedì dalla Consob, Intesa Sanpaolo centra l’obiettivo. Ieri, al termine della terzultima seduta utile, le adesioni all’opas su Ubi hanno raggiunto il 71,91%, posizionandosi abbondantemente al di sopra del 66,67% necessario per controllare l’assemblea straordinaria e dunque decidere la fusione. Una condizione che consentirà di estrarre tutte le sinergie previste dal progetto.
Già in mattinata comunque Intesa si era rivelata molto vicino all’obiettivo. L’adesione del Car, facendo seguito a quella delle due fondazioni (Crc e Monte di Lombardia) presenti nel patto e a quella di Cattolica, ha infatti proiettato l’opas largamente sopra il 50%. Ad annunciare l’adesione dei pattisti, che a febbraio avevano bollato come irricevibile l’offerta, è stata una nota che ha spiegato come il cambio di rotta sia avvenuto anche a seguito del «parziale riconoscimento del valore economico di Ubi Banca». Soprattutto il Car ha fatto riferimento alle «ampie rassicurazioni riguardo alla tutela e valorizzazione del personale di Ubi, alle aspettative del territorio, anche attraverso la continuità degli enti finalizzati localmente ad attività di solidarietà sociale, con disponibilità ad incrementare le erogazioni attuali, alla continuità nello sviluppo dei progetti in corso con attenzione ai valori della banca e al rapporto di collaborazione con gli imprenditori azionisti». Dai soci del Car sono state presentate espresse «gratitudine e riconoscenza a tutta la governance e al personale di Ubi, alla presidente Letizia Moratti e all’amministratore delegato Victor Massiah, che hanno saputo creare una solida e redditizia banca divenuta molto ambita dalla prima banca nazionale». L’adesione del Car arriva dopo quella degli altri patti presenti nel capitale di Ubi. Se infatti il bresciano Sindacato Azionisti ha per tempo dato luce verde all’operazione, i bergamaschi riuniti nel Patto dei Mille hanno lasciato libertà di coscienza ai propri membri. Decisivo è stato il ritocco al prezzo annunciato da Ca’ de Sass venerdì 17 (è stato aggiunto un corrispettivo in denaro pari a 0,57 euro per azione, per complessivi 652 milioni di euro) che ha di fatto innescato la valanga di adesioni dell’ultima settimana.
Sul trend dei prossimi giorni incideranno soprattutto le iniziative dei fondi che hanno già intrapreso diverse iniziative di arbitraggio sulle azioni Ubi, speculando sui differenziali di prezzo. Alcuni istituzionali per esempio hanno venduto allo scoperto prendendo a prestito dalle banche custodian o dagli Etf e scommettendo sulla fisiologica discesa delle valutazioni dopo la chiusura dell’opas. Altri hanno comprato, per poi conferire all’opas, approfittando dello sconto dei valori di borsa rispetto al prezzo offerto da Intesa. Quanto ai singoli investitori, il fondo Silchester (detentore dell’8,5% del capitale di Ubi) ha aderito per l’intera quota, mentre ha apportato un iniziale 2,5% Parvus, l’asset manager inglese fondato da Edoardo Mercadante, che nei mesi scorsi ha rafforzato la propria posizione nel gruppo lombardo portandosi al 7,9%.
Smarcata l’offerta pubblica, oggi si può iniziare a ragionare sull’implementazione del progetto. Le nozze tra le due banche, secondo le previsioni, porteranno a numeri molto significativi. Se l’ammontare degli impieghi sarà di circa 460 miliardi, il risparmio che gli italiani affideranno alla nuova banca supererà i 1.100 miliardi, mentre i ricavi saranno pari a 21 miliardi. Risultati che verranno ottenuti, secondo il progetto di Intesa, facendo leva sul modello di business incentrato su wealth management e protection. Come più volte ha ricordato il ceo Carlo Messina, quello che nasce sarà un «leader a livello continentale, grazie alla posizione di settimo operatore per generazione di ricavi e terzo per valore di borsa dell’Eurozona». (riproduzione riservata)
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