Brambilla (Itinerari Previdenziali) segnala che quando cresce la disoccupazione l’uscita anticipata dal lavoro si trasforma in una sorta di ammortizzatore sociale. E stima 150 mila adesioni anche quest’anno

di Marco Capponi
Più pensioni per tutti. Le previsioni sull’aumento di pensionati in Italia parlano di numeri preoccupanti: nel 2020 se ne stimano 440 mila in più rispetto al 2018, che a oggi rappresenta l’anno di minimo storico. Un peso non indifferente per le casse dello Stato e il sistema di welfare, che si prepara ad affrontare lo tsunami della crisi del Covid-19. Alberto Brambilla, presidente del Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali, già presidente del Nucleo di valutazione della Spesa Previdenziale al Ministero del Lavoro e sottosegretario al Ministero del Welfare, conosce bene i pericoli di una situazione come quella attuale, anche in virtù della debolezza del sistema Paese italiano.
Domanda. Professor Brambilla, nel 2018 il numero di pensionati in Italia era stato il più basso di sempre. Nel 2019 l’introduzione di Quota 100 e altri decreti ha aumentato il totale di circa 150 mila unità. Quali sono le previsioni per il 2020?
Risposta. Nel 2019 hanno fatto domanda di quota 100 228 mila persone: ne sono state accolte oltre 150 mila. Le potenziali situazioni di cassa integrazione prolungata e soprattutto l’aumento della disoccupazione incentiveranno l’uso di Quota 100 per cui si può prevedere che nel 2020 saranno almeno altrettante le persone che richiederanno Quota 100. Quindi, si ipotizzano circa 150 mila concessioni di pensioni anche per il 2020. Considerando opzione donna, Ape e precoci potremmo arrivare intorno alle 240 mila pensioni in più, escluse le pensioni anticipate. Un aumento enorme del numero dei pensionati. Si arriverà a 16,44 milioni, dai 16 del 2018, riportandoci ai valori del 2003.
D. In che modo la pandemia potrà influire sul numero di persone che richiedono di andare in pensione?
R. In una situazione ordinaria a oggi ci sarebbero state circa 50 mila domande di Quota 100 e 10 mila di Opzione donna. Però questa non è una situazione ordinaria, perché la pandemia lascerà oltre un milione di persone senza lavoro. Molti di loro saranno nella fascia Ape sociale, precoci o Quota 100: persone con un’età che difficilmente permette il ricollocamento (62-63 anni, ndr).
D. Quali sono le loro opzioni?
R. Tutte queste persone devono scegliere tra un lungo periodo di inattività e una Quota 100 con taglio della pensione del 10%. Probabilmente opteranno per Quota 100. Dobbiamo considerare che il pil cadrà a picco, 90 mila esercizi tra cui negozi, ristoranti, alberghi non riapriranno più, il turismo non lavorerà: tutti quelli che si troveranno in situazioni di emergenza lavorativa potrebbero chiedere le pensioni una volta finite le 12 settimane di cassa integrazione.
D. Come conseguenza, inoltre, meno gente pagherà i contributi.
R. Le previsioni sul welfare sono abbastanza pesanti: ci saranno molte meno entrate e maggiori uscite. L’ultima stima fatta in sede di revisione di bilancio preventivo dell’Inps dice che 7,7 milioni di persone hanno chiesto la cassa integrazione e 5 milioni hanno fatto domanda per il bonus da 600 euro. L’Inps potrebbe avere tra 10 e 19 miliardi di minori entrate e tra 10 e 12 miliardi di maggiori uscite. Nel 2020 il disavanzo potrebbe essere anche di 25 miliardi in più e 50 miliardi di deficit.
D. Qual è il legame tra questi dati e l’emergenza?
R. La crisi in Italia non è stata gestita benissimo. Mentre da noi c’è stato un crollo della produzione industriale di quasi il 50%, la media europea era sotto il 20%. Questo significa che l’Italia ha chiuso di più. Il nostro è anche il Paese più debole: in 12-13 anni ha perso oltre il 13% della produttività rispetto alla media continentale. Ultimo punto, eravamo anche in fondo alle statistiche del tasso di occupazione: nel 2019 abbiamo ottenuto il miglior risultato di tutti i tempi, ma in termini comparativi con gli altri Paesi siamo penultimi.
D. Un problema che potrebbe avere esiti negativi in molti campi.
R. Nel documento presentato al presidente della Repubblica abbiamo fatto presente che la crisi sanitaria, diventata crisi economica, potrà trasformarsi infine in una crisi di coesione sociale.
D. Nessuno aveva previsto un’emergenza del genere, ma Quota 100 ora ha una sua utilità. In che modo?
R. Oggi Quota 100 è un ammortizzatore sociale che viene in aiuto durante una situazione impronosticabile. Ormai sono io il primo a dire: non cancellatela!
D. Eppure in passato Lei era stato tra i più critici. Proprio su Quota 100 infatti è maturato il suo divorzio politico con la Lega.
R. Il governo gialloverde aveva un’occasione d’oro per una riforma organica della legge Fornero. C’era Giorgetti sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Salvini era vicepremier e ministro dell’Interno e lo stesso Di Maio era favorevole. Una riforma strutturale avrebbe dato molto più lustro allo stesso segretario della Lega. Eppure si è scelto di non fare una legge in favore dei giovani e di introdurre Quota 100, che per i giovani comporta solo più debito.
D. Un problema di comunicazione politica?
R. Si è preferito dare ascolto a una comunicazione incentrata su reddito di cittadinanza, cioè soldi per tutti senza lavorare, più Quota 100. Totale: 80 miliardi a debito. Per questo me ne sono andato.
D. Quanti di questi 80 miliardi vengono da Quota 100?
R. La metà: 40 miliardi totalmente a debito. Il primo decreto prevedeva addirittura 71 miliardi, che poi sono stati ridotti.
D. Quali sono gli errori della Fornero?
R. Essenzialmente tre. Primo, la separazione netta tra giovani e meno giovani nelle modalità delle prestazioni. I più giovani con la Fornero devono avere prestazione pari a 2,8 volte l’assegno sociale, quindi 1.300 euro. Una cifra che con i salari di oggi è difficile da raggiungere: ragion per cui i giovani non possono andare in pensione né a 65 né a 67 anni. Bisogna trovare regole comuni per tutti: non si può chiedere ai giovani di pagare per i vecchi, se quando sarà il loro turno avranno diritto alla metà.
D. Le altre correzioni?
R. Secondo, l’indicizzazione dell’anzianità contributiva all’aspettativa di vita. In nessun Paese si fa così: vanno tutti in pensione con 41-42 anni di anzianità. Noi siamo già arrivati a 43 anni e tre mesi, con prospettiva 44. È insostenibile pensare che una persona con 67 anni di età e 20 di contributi possa andare in pensione di vecchiaia e una persona con 40 di contributi non possa andare in pensione. E terzo, mancava la flessibilità: non si può immaginare che se non hai 67 anni non puoi andare in pensione.
D. Propone di istituire un’anagrafe della spesa assistenziale. Quali questioni potrebbe risolvere?
R. Noi abbiamo una spesa per pensioni che è coperta dai contributi versati: se si considerano solo le pensioni, togliendo integrazioni al minimo e spese di natura assistenziale, ci sarebbe quasi un pareggio di bilancio tra entrate da contributi e uscite per prestazioni. Il problema è che in Italia c’è una fortissima spesa di assistenza sociale. Ben 105 miliardi vengono erogati direttamente dallo Stato, 10 dagli enti locali, 8 per il sostegno alla casa. Siamo sopra i 130 miliardi, a cui si sommano i 115 per la sanità. Quasi il 67% della spesa pensionistica va così. Quasi tutti i Paesi con un welfare sviluppato hanno un’anagrafe dell’assistenza, e sanno come i soldi arrivano alle persone. In Italia scopriamo che abbiamo dato il reddito di cittadinanza a persone che hanno a che fare con l’economia in nero e l’evasione, ma risultano nullatenenti.
D. Una stima?
R. Ci sono circa 820 mila persone di cui fino a 66 anni non sappiamo proprio nulla e poi richiedono l’assegno sociale. In Danimarca o in Svezia dopo i 36 anni, se non hanno mai fatto la dichiarazione dei redditi, vengono chiamati dall’Agenzia delle Entrate che chiede loro chiarimenti. Manca poi la certezza della pena: è molto raro che in Italia qualcuno vada in carcere per frode fiscale.
D. Un ultimo punto. Il dato della previdenza complementare in Italia è molto più basso rispetto alla media Osce. Perché?
R. Una giustificazione c’è per motivi storici: l’Italia ha sempre avuto fino ai primi anni Duemila pensioni pubbliche assai generose. Quando, dopo la riforma Dini, il sistema è cambiato, c’erano ancora nelle Pubbliche amministrazione o nelle forze militari persone che andavano in pensione con il 105-110% dell’ultimo reddito, tramite promozioni last minute per avere più soldi. La norma era che si andasse in pensione col 90-110% del proprio stipendio da dipendente. Quindi il cambiamento deve maturare in molto tempo. Nei Paesi del Nord la pensione viaggia tra il 35% e il 50%, e per questo serve la previdenza complementare: altrimenti è impossibile sopravvivere. E con la crisi ovviamente tutto si aggrava. (riproduzione riservata)

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