Pagina a cura di Carolina Nizza
Ecco un dato sorprendente: il 25% delle aziende italiane che punta a diventare più sostenibile non possiede le competenze per farlo. Questo è il risultato che emerge da una ricerca di Hsbc Navigator, indagine sul commercio internazionale che coinvolge oltre 200 imprese in Italia. E la conclusione è tutt’altro che banale.
Ormai sappiamo che dinanzi a una globalizzazione sempre più connessa, con rivoluzioni in atto come quella tecnologica o sfide come quelle relative al cambiamento del clima e alla diseguaglianza che cambiano le regole del gioco, le aziende devono fare i conti con un nuovo modo di pensare che mette a rischio la loro stessa esistenza. Dalle pmi alle grandi aziende, in Italia come all’estero, tutte devono attrezzarsi per rispondere alle esigenze di un mondo che cambia.
Tra i nuovi pensieri c’è, ovviamente, l’adempimento di fattori Esg – ovvero di Governance, Sociale e Ambientale. Criteri sempre più rilevanti sui quali le aziende vengono misurate in maniera ormai sistematica. E che emergono non solo a livello istituzionale – per esempio con la chiamata al settore privato di contribuire alla realizzazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite – ma che si manifestano anche nel mercato, con pressioni esercitate da parte di consumatori, investitori, e competitor. Ormai è chiaro a tutti: essere non-sostenibile è diventato insostenibile.
Non tutte le aziende però, sanno rispondere. Secondo lo stesso studio di Hsbc, nei prossimi cinque anni, la principale sfida che le imprese italiane stimano di dovere affrontate in tema di sostenibilità sarà la carenza di supporto-consulenza e la scarsità di comprensione-conoscenza della materia. Ma come è possibile? La verità è che la corsa alla sostenibilità non è una semplice risposta di business. Diventare veramente sostenibili richiede uno sforzo maggiore, un vero e proprio ripensamento del purpose stesso dell’azienda, della sua ragione d’essere, del suo scopo di vita, e del suo contributo nel mondo.
Come ricordava il ceo di BlackRock Larry Fink – che ha inserito la valutazione della sostenibilità tra i criteri imprescindibili nella scelta di investimenti della stessa società di gestione del risparmio – in una lettera agli investitori: «per prosperare nel tempo, un’azienda non deve solo limitarsi a fare utili, ma anche dimostrare come può contribuire positivamente alla società». E questo richiede un impegno che non tutte le aziende sono in grado di affrontare.
Perché per arrivare a generare un impatto positivo sulla società, è necessario cambiare il proprio modello di business: una scelta che richiede una leadership forte, investimenti e molta visione.
L’importanza del fattore umano, per esempio. Un’azienda sostenibile deve saper mettere al centro i propri dipendenti, favorirne non solo il benessere e il well-being, ma anche lo sviluppo professionale, l’inclusione e l’empowerment, generando un senso di appartenenza, determina anche l’efficienza.
Occorre poi rivolgere l’attenzione all’innovazione e allo sviluppo di capacità tecnologiche – fondamentale per rimanere al passo con i tempi ma anche per munirsi di strumenti che permettono di essere sostenibili, per esempio attraverso il riciclo dei rifiuti, l’eliminazione della plastica e la digitalizzazione. E questo serve anche per contribuire alla transizione energetica, spostandosi da modelli produttivi inquinanti, a modelli più puliti.
E poi c’è l’implementazione, che deve andare in fondo. Non basta l’azione esercitata in maniera superficiale che possa fungere come timbro di sostenibilità, ma servono regole e procedure in grado di istituzionalizzare una mentalità sostenibile lungo tutta la catena de valore. Per esempio partendo dall’approvvigionamento con misure di green procurement, oppure dalle scelte di investimenti.
Per essere sostenibili, le aziende devono imparare a capire i trends, dove andare e a quali consumatori rispondere, il potenziale di mercati nuovi ed emergenti. Solo così potranno durare nel tempo, ricoprendo il ruolo per cui sono nate e per il quale l’uomo le ha scelte come forma di organizzazione collettiva. Ovvero, come dice la parola inglese, company, o compagnia, che deriva dal latino «cum panis», per condividere lo stesso pane. (riproduzione riservata)
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