Nel 2018, il numero di pensionati resta stabile a 16 milioni rispetto al 2017, per un numero complessivo di trattamenti pensionistici erogati pari a poco meno di 23 milioni. La spesa totale pensionistica (inclusa la componente assistenziale) nello stesso anno raggiunge i 293 miliardi di euro (+2,2% su variazione annuale).

Lo rileva l’Istat spiegando che il peso relativo della spesa pensionistica sul Pil si attesta al 16,6%, valore appena più alto rispetto al 2017 (16,5%), segnando un’interruzione del trend decrescente osservato nel triennio precedente.

Gran parte della spesa (265 miliardi, il 91% del totale) è destinata alle pensioni Ivs (invalidità, vecchiaia e superstiti), legate a un pregresso contributivo proprio o di un familiare, a cui si aggiungono 4,2 miliardi erogati a copertura di 716.000 rendite dirette e indirette erogate per infortuni sul lavoro e malattie professionali. Le pensioni assistenziali (invalidità civile, pensione sociale e pensione di guerra) sono circa 4,4 milioni e impegnano 23,8 miliardi.

Si riduce il rapporto tra numero di pensionati Ivs e occupati, che misura il carico dei pensionati sopportato da quanti partecipano attivamente al mercato del lavoro. Nel 2018 ci sono 606 pensionati da lavoro – con pensione diretta o indiretta – ogni 1.000 persone occupate, mentre erano 683 nel 2000.

Più del 50% della spesa complessiva è erogata a residenti al Nord, soprattutto come beneficiari di pensioni IVS – il resto nel Mezzogiorno (27,8%) e al Centro (21,1%). Anche tenendo conto delle differenze territoriali nella struttura per età della popolazione, il tasso di pensionamento risulta più elevato al Nord (262 pensionati ogni 1.000 abitanti), scende nel Mezzogiorno (257) ed è in assoluto più basso al Centro (253).

L’importo medio lordo dei singoli trattamenti nel 2018 non supera i 500 euro mensili per le pensioni assistenziali e ammonta a quasi 1.469 euro per quelle di vecchiaia (17.634 euro annui). Il reddito pensionistico, ottenuto considerando che un percettore può cumulare più trattamenti, sale in media rispettivamente a 1.175 euro e a 1.800 euro mensili. In termini nominali l’importo medio delle prestazioni del 2018 è aumentato del 70% rispetto a quello del 2000, con una dinamica più marcata rispetto a quella registrata dalle retribuzioni medie degli occupati dipendenti. Rispetto al 2000, infatti, le retribuzioni sono aumentate del 35% in un contesto di crisi economica che si è associata anche a provvedimenti di blocco dei rinnovi contrattuali nel settore pubblico, favorendo così l’allargamento del gap tra le due curve.

Il 36,3% dei pensionati riceve ogni mese meno di 1.000 euro lordi, il 12,2% non supera i 500 euro. Un pensionato su quattro (24,7%) si colloca, invece, nella fascia di reddito superiore ai 2.000 euro. Il divario di genere è a svantaggio delle donne, più rappresentate nelle fasce di reddito fino a 1.500 euro. La concentrazione di percettori uomini, invece, è massima nella classe di reddito più alta (3.000 euro e più) dove ci sono 266 pensionati ogni 100 pensionate. Le donne sono la maggioranza sia come percettrici di pensioni (55,5%) sia come pensionate (52,2%), ma ricevono il 44,1% della spesa complessiva. L’importo medio delle pensioni di vecchiaia è più basso rispetto a quello degli uomini del 36,7%, quello delle pensioni di invalidità è del 33,8%. Per le pensioni di reversibilità invece le donne percepiscono 1,5 volte l’importo degli uomini.

I pensionati con redditi da pensione meno elevati risiedono soprattutto nel Mezzogiorno, dove sono più diffuse le pensioni assistenziali a svantaggio di quelle da lavoro e dove il quinto di popolazione che appartiene alla fascia di reddito da pensione più basso percepisce fino a 7 mila euro lordi annui; nel Nord la soglia sale a quasi 9.000 euro. Il quinto di pensionati con redditi pensionistici più elevati percepisce al Centro e al Nord-ovest oltre 27.000 euro lordi annui, nelle Isole oltre 24.000 euro.

Sono in netto calo i pensionati che continuano a lavorare. Secondo la Rilevazione sulle forze di lavoro, i pensionati da lavoro che percepiscono anche un reddito da lavoro, pari a 406.000, diminuiscono anche nel 2018 (-1,2% rispetto all’anno precedente e -21,3% dal 2011), soprattutto nelle regioni centro-meridionali. Si tratta di uomini in quasi otto casi su dieci, dei quali circa l’85% svolge un’attività lavorativa indipendente, oltre due terzi risiedono nelle regioni settentrionali mentre un terzo lavora a tempo parziale (Tavola 8 in allegato). La metà dei pensionati occupati ha al massimo la licenza media (31% per il complesso degli occupati), uno su quattro è in possesso di un diploma. Il segmento dei laureati, oltre un quinto del totale, è l’unico in aumento rispetto sia all’anno precedente sia al 2011.

Infine, il rischio povertà è più basso tra le famiglie con pensionati.

Nel 2017, la media dei redditi netti (esclusi i fitti figurativi) delle famiglie con pensionati è stimata in 31.374 euro (2.615 euro mensili), valore che si approssima a quello delle famiglie senza pensionati (2.620 euro mensili). La metà delle famiglie con pensionati non supera la soglia dei 24.780 euro (2.065 euro mensili), valore che scende a 22.182 euro nel Mezzogiorno e si attesta intorno a 26.490 euro nel Centro e a 26.090 euro nel Nord. Le famiglie con pensionati presentano valori del reddito medio e mediano più bassi rispetto a quelli delle altre famiglie, mentre accade il contrario se si considera il reddito netto familiare equivalente (che tiene conto dell’effetto delle economie di scala e rende direttamente confrontabili i livelli di reddito di famiglie diversamente composte). Infatti, il valore medio di quest’ultimo aggregato è pari a 20.646 euro per le famiglie con pensionati contro i 18.900 euro delle restanti famiglie. Ne consegue che il rischio di povertà delle prime (15,9%) è circa 8 punti percentuali inferiore a quello delle seconde, confermando l’importante ruolo di protezione economica che i trasferimenti pensionistici svolgono per le famiglie.

La presenza di un pensionato all’interno di nuclei familiari “vulnerabili” (genitori soli o famiglie in altra tipologia) consente quasi di dimezzare l’esposizione al rischio di povertà (rispettivamente dal 31,6% al 16,1% e dal 28,2% al 18,7%). Il cumulo di pensioni e redditi da attività lavorativa abbassa il rischio di povertà al 5,7% rispetto al 17,9% di quelle costitute da soli titolari di pensioni. Anche l’apporto economico dei componenti non pensionati, in particolare degli occupati, riduce il rischio di povertà al 9,3%. Tra le famiglie con pensionati, le meno esposte al rischio di disagio economico sono quelle in cui è presente un pensionato che cumula redditi da lavoro con o senza altri componenti occupati (rischio di povertà rispettivamente a 3,3% e 5,7%) mentre le più vulnerabili sono costituite da pensionati senza altri redditi da lavoro che vivono con familiari non occupati (32,5%).

Le famiglie di pensionati del Sud e delle Isole presentano un’incidenza al rischio di povertà quasi tripla rispetto a quella delle famiglie residenti nel Nord e più che doppia rispetto a quelle del Centro.

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