di Renato Giallombardo – partner Gianni Origoni Grippo Cappelli & Partners
La storia dei Pir si arricchisce di un nuovo capitolo. In Parlamento si sta pensando di modificare la normativa per far ripartire i Pir, per intenderci quelli del 2017. I Pir sono strumenti di investimento per le famiglie che hanno portato gli asset manager operanti in italia a raccogliere oltre 20 miliardi di euro sulla base di futuri benefici fiscali legati ad ipotetici rendimenti. Erano stati pensati per far defluire risorse verso l’economia reale. Ma gli investimenti in economia reale sono stati sostanzialmente pari a zero. Era il 2017. La legge di Bilancio introduce la detassazione totale sui rendimenti derivanti da capital gains e dividendi, a condizione che l’investimento rimanga nelle mani dell’investitore per almeno 5 anni. L’obiettivo dichiarato dei Pir è quello di apportare un contributo concreto al sostegno dell’economia reale (che in Italia è sostanzialmente l’economia non quotata) garantendo un afflusso di capitali verso quei settori, imprese ed iniziative che per più motivi sono snobbati dall’investitore comune. E quali sono questi mercati e questi settori, e soprattutto cosa aveva in mente il legislatore per far ripartire l’economia del nostro Paese? Presto detto. I mercati sui quali si investe meno ma sui quali il Paese avrebbe più bisogno sono sempre gli stessi: infrastrutture, pmi e innovazione. È su questo che serviva e serve uno sforzo ulteriore. È su questo che il Paese doveva e dovrà concentrare eventuali benefici fiscali. Un Piano Marshall per l’economia reale non può non ripartire da qui. E invece no. Con i Pir del 2017, pensati per la cosiddetta economia reale, si va nella direzione opposta. Si consente la raccolta delle risorse finanziarie tramite strumenti adatti al mercato finanziario e borsistico. Il mercato coglie l’opportunità e avvia un imponente lavoro di raccolta usando le reti e gli asset manager. Lo strumento scelto è l’Oicvm. Un fondo che deve investire almeno il 90% delle risorse in borsa e mercati regolamentati. In prodotti cosiddetti liquidi.
Ricordiamo che in borsa in Italia sono presenti 360 imprese in tutto. Quindi taglio fuori e netto di pmi non quotate, infrastrutture, start up innovative o spin off di ricerca. Unico effetto: 39 quotazioni all’Aim, e altre 200 imprese in borsa sulle quali in meno di 18 mesi tra il 2017 e il 2018 sono stati investiti poco più di 2 miliardi di euro. Mentre la stragrande maggioranza delle risorse oltre 15 miliardi saranno investiti in titoli esteri quotati su mercati internazionali, sul debt capital market, in titoli sovrani e prodotti misti non collegati in alcun modo alla ingiustamente invocata economia reale del Paese. Se serve una controprova, basta chiedere ad una qualsiasi impresa non quotata se ha ricevuto un euro dai Pir, oppure a una pmi, a un piccolo imprenditore, a un commerciante, a una qualsiasi startup o a un developer che abbia avuto l’idea di investire in infrastrutture, se abbia mai beneficiato di questo magico strumento di investimento per la cosiddetta economia reale. Non ne troverete uno. Comunque un fatto è sicuro. Per ottenere rendimenti a tassazione zero bisogna aspettare cinque anni. Non un giorno di meno. E per ora siamo 1 a 1. Nel 2018 profondo rosso, nel 2019 verde chiaro. Ma che sarà fra tre anni se dovessero essere reintrodotti i Pir? Cosa faranno gli asset manager con i soldi delle famiglie italiane? E cosa accadrà se i Pir 2017 dovessero ripartire e la raccolta dovesse andare in massa ad altri round da 30, 40 o 50 miliardi? Siamo certi che ciò aiuti l’economia reale del Paese? Ciò che è certo è che le commissioni pagate dagli italiani aiuteranno l’economia finanziaria, non del nostro Paese. (riproduzione riservata)
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