La ricchezza accumulata dagli italiani ammonta a 9.743 miliardi di euro E fa gola sia allo Stato, che l’ha tartassata negli ultimi anni, sia ad assicurazioni e banche, che compensano con le commissioni gli effetti negativi dei tassi sottozero
di Roberta Castellarin e Paola Valentini

La cifra, enorme, la ricorda il presidente di Intesa Sanpaolo , Gian Maria Gros-Pietro, che in occasione della Giornata Mondiale del Risparmio ha dichiarato: «Con 9.743 miliardi di euro di ricchezza cumulata, gli italiani si confermano un popolo che l’arte del risparmio ce l’ha nel Dna». Le parole di Gros-Pietro svelano una realtà che da tempo è chiara allo Stato, ossia che il risparmio degli italiani è un vero e proprio petrolio a cui attingere quando i conti non tornano. Come i risparmiatori hanno dovuto sperimentare dall’inizio della grande crisi finanziaria del 2008 ogni nuova manovra è stata occasione per mettere un nuovo balzello su immobili o investimenti. Nemmeno i titoli di Stato si sono salvati perché l’imposta di bollo riguarda anche i Btp.
D’altronde come sa l’uomo comune per poter tagliare le entrate, bisogna tagliare le spese, partendo da quelle inutili. Soprattutto se non c’è nessuno disposto a darti nuovo credito. Quello che accade a chi ha un debito pubblico elevato come l’Italia che non accenna a scendere strutturalmente. Eppure proprio la Cgia Mestre ha rivelato che «nonostante la tanto sbandierata spending review, la spesa per i consumi intermedi della Pubblica amministrazione continua a correre. Per le spese correnti nel 2018 lo Stato ha speso 100,2 miliardi di euro».
Lo studio ha calcolato che tra il 2010 e il 2014 la dinamica delle uscite relative a questa voce si era pressoché arrestata: tuttavia, con il superamento della fase più critica dei conti pubblici, è tornata ad aumentare. Come mostra il grafico in queste pagine negli ultimi cinque anni, ad esempio, la crescita è stata del 9,2% (+8,5 miliardi in valore assoluto), mentre l’inflazione, sempre nello stesso periodo di tempo, è aumentata solo del 2%. Dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo: «Malgrado il grande lavoro svolto dalla Consip per rendere più efficiente e trasparente l’utilizzo delle risorse pubbliche, il contenimento della spesa ha funzionato poco o, addirittura, non è stato conseguito. Al netto degli effetti di quota 100 e del reddito di cittadinanza, è chiaro a tutti che se le uscite di parte corrente torneranno ad aumentare, non sarà possibile ridurre in misura significativa il peso fiscale. Nel giro di qualche anno ci ritroveremo, nonostante le promesse che in questi ultimi anni molti politici ci hanno raccontato, con più tasse e una spesa pubblica incomprimibile». Di fronte a un quadro di questo tipo è lampante quanto tagliare le tasse diventi praticamente impossibile e che, a fronte di leggeri ritocchi all’ingiù, bisogna trovare balzelli da aggiungere per far quadrare ancora una volta i conti. Visto che agenzie di rating e Commissione europea, ma anche i gestori e le investment bank, passeranno al vaglio anche le virgole del testo presentato.
Ma a guardare al risparmio come sistema per far quadrare i conti ci sono anche banche e assicurazioni. Infatti un’altra forma di prelievo sul risparmio è rappresentata dalle commissioni che con l’inflazione a zero e i tassi ai minimi pesano come un macigno sui capitali accumulati. Tanto che forse verrebbe da dire che il vero guadagno è proprio risparmiare, nel senso di riuscire a limitare i costi. Un aspetto cruciale, quest’ultimo, in un momento cui le banche guardano sempre più al business dei fondi e delle polizze assicurative per recuperare margini dal momento che la tradizionale attività di prestiti è frenata dalla gran massa di crediti in sofferenza che ancora grava sui loro bilanci. Ad esempio la stessa Intesa Sanpaolo ha registrato nei primi sei mesi del 2019 un utile netto consolidato di 2,26 miliardi di cui 226 milioni prodotti dalla controllata nell’asset management Eurizon Capital. L’utile netto consolidato di Fideuram-Intesa Sanpaolo private banking, la struttura del gruppo specializzata nella gestione di patrimoni d’alta gamma, si è attestato nel primo semestre a 456 milioni.
Le due società hanno quindi totalizzato quasi un terzo dei profitti dei sei mesi della banca guidata dall’ad Carlo Messina. Aggiungendo i 305 milioni di utile netto di Intesa Sanpaolo Vita, la compagnia assicurativa della banca, si arriva a un utile pari alla metà di quello registrato da tutto il gruppo. E la stessa dinamica emerge nelle altre realtà che hanno in casa il business della gestione delle ricchezze, come ad esempio Mediobanca il cui ad Alberto Nagel, con CheBanca e Mediobanca Private Banking, ha costruito un polo dedicato ai risparmi che sta crescendo sempre più e rappresenta ormai un pilastro importante dell’attività, accanto a quello tradizionale di investment banking. Con le commissioni, come afferma un recente report di BofA Merrill Lynch, gli istituti sono bene o male riusciti a difendere la redditività negli ultimi anni. Ad esempio gli utili di Intesa Sanpaolo nel 2018 sono stati oltre tre volte più alti rispetto a quelli di quattro anni prima. Ma ora lo scenario è peggiorato a causa del crollo del rendimento del Btp decennale passato dal 3,5% di fine 2018 a sotto l’1% di oggi. Il problema è che in una fase di tassi ai minimi o perfino negativi, «se la liquidità non viene trasformata in prodotti con commissioni o in prestiti con spread più alti, questa resta un costo», aggiunge BofA Merrill Lynch. Date queste premesse, la conclusione logica è che l’accelerazione delle banche sul risparmio gestito rischia di presentare ai risparmiatori un conto salato.
Secondo un’analisi di Mediobanca Securities pubblicata a inizio febbraio scorso, in Italia le società italiane di risparmio gestito applicano ancora un modello che prevede commissioni fisse in percentuale sulle masse, mentre nei modelli low cost diffusi all’estero, come ad esempio fa negli Usa il colosso Usa Charles Schwab, l’importo dei costi addebitati ai clienti è inversamente proporzionale alle masse investite. E soprattutto in diversi casi, spiega sempre Mediobanca Securities, dietro l’etichetta di private banking si nascondono in realtà divisioni che propongono la stessa offerta standardizzata dedicata ai clienti con patrimoni più bassi integrata con una piattaforma di servizi che però è standard.
Ma i prezzi sono quelli di alta sartoria. Gli analisti rilevano che le commissioni di gestione di Azimut nei primi nove mesi 2018 sono state dell’1,55% in media, quelle di Banca Generali dell’1,47%, di Banca Mediolanum dell’1,86% e di Fineco dell’1,25%. Nei sette anni dal 2011 al 2017 questi valori erano dell’1,65% per Azimut , dell’1,49% per Banca Generali , del 2% per Banca Mediolanum e dell’1,18% per Fineco . C’è stata dunque nel 2018, per tutti (tranne Fineco ), una leggera riduzione nei costi applicati ai clienti, anche per via della pressione sulla trasparenza voluta da Mifid II, ma non abbastanza. Ad esempio, Azimut , Banca Generali , e Banca Mediolanum hanno reso più favorevoli per i risparmiatori i metodi di calcolo delle commissioni di performance, ma Azimut e Banca Mediolanum nel contempo hanno alzato il livello delle commissioni di gestione (+50 punti base per la prima e +48 punti base per la seconda). Fineco invece, per abbassare il costo medio complessivo, ha scelto di inserire come sottostante dei portafogli di Fineco Asset Management, accanto ai fondi attivi, anche strategie passive che sono più economiche, oppure case di investimento terze con le quali è riuscita a spuntare commissioni più basse. In ogni caso, secondo l’ultimo rapporto Morningstar Global investor experience, l’Italia è in coda alla classifica dei mercati globali sulla base delle commissioni e degli oneri del risparmio gestito.
Ma la pressione degli etf si sta facendo sentire sempre di più sull’industria dei fondi attivi. E l’arrivo in Italia a inizio di quest’anno del colosso delle gestioni indicizzate a basso costo Vanguard crea non pochi grattacapi ai gestori. In questa fase di grandi mutamenti in Europa la media delle spese correnti dei fondi azionari attivi (dati Morningstar) è dell’1,65%, contro lo 0,39% dei fondi azionari passivi, quella dei fondi obbligazionari attivi si attesta allo 0,91% e nei passivi obbligazionari è allo 0,22%. Nei giorni scorsi Vanguard ha sparigliato ancora il mercato tagliando ulteriormente le commissioni di 11 dei suoi Etf quotati, in Europa, inclusa Piazza Affari. Grazie alle sue economie di scala la seconda società di gestione al mondo con un patrimonio di 5.200 miliardi di dollari, ha potuto far scendere la media delle spese correnti degli Etf oggetto dell’adeguamento allo 0,12%.
Come ha dichiarato Sean Hagerty, head of Vanguard Europe, «esiste ancora l’idea errata che quanto più si paga per un investimento, tanto più esso debba performare in termini di rendimento. In realtà, i costi hanno un impatto concreto sui ritorni e ogni euro pagato in commissioni è semplicemente un euro in meno di rendimento potenziale. Gli investitori non possono controllare i mercati finanziari, ma possono sicuramente controllare i costi che pagano».
Intanto i numeri di raccolta finora sembrano dare conferma che la strategia aggressiva degli Etf risulta vincente. Anche gli ultimi dati fotografati da Refinitiv sulla raccolta dell’asset management europeo a settembre 2019 confermano questa dinamica. In un contesto in cui la raccolta netta totale in Europa è stata positiva per 10,5 miliardi di euro, sul podio della classifica in termini di flussi ci sono tre big player a stelle e strisce e britannici, specializzati o comunque con una rilevante esposizione del loro business alle strategie passive. BlackRock è il primo per fondi venduti con 5,5 miliardi raccolti, Vanguard secondo con 3,3 miliardi raccolti e Legal & General terzo con 3,1 miliardi di euro raccolti in un mese.
D’altra parte spazi per un taglio delle commissioni dei fondi attivi sono ampi se è vero che in uno studio di Berenberg su Anima si può leggere che i suoi prodotti hanno un prezzo di break-even di 5 punti base, quelli di Amundi di 10 punti base e di Schroders 32 punti base. Se si pensa che un fondo comune azionario costa non meno dell’1,5% e uno obbligazionario attorno all’1%, si può capire quanto potrebbero scendere i prezzi del risparmio gestito. Sarebbe anche un’occasione per conquistare la fiducia degli investitori italiani o quali restano molto liquidi, nonostante il tasso di risparmio sia in aumento negli ultimi mesi. La fotografia scattata dall’indagine sugli italiani e il risparmio di Acri-Ipsos, realizzata in occasione della 95ª Giornata del Risparmio, segnala proprio uno scenario in cui da un lato aumentano le famiglie che riescono a risparmiare (42%), anche tra coloro che vivono qualche difficoltà, dall’altra si riducono le famiglie in saldo negativo (16%, -6 punti percentuali rispetto al 2018), ossia chi deve ricorrere a prestiti o al risparmio accumulato.
Ma gli italiani che risparmiano fanno ancora fatica a trovare l’investimento ideale, non a caso la liquidità è ancora elevata nei portafogli, mentre resta stabile la preferenza per il mattone e torna lentamente ad affacciarsi nei portafogli il risparmio gestito. Il risparmio viene, quindi, dirottato ancora in gran parte in liquidità, sia per una ridotta facilità di trovare un investimento ideale, sia per la diffidenza verso norme e istituzioni che lo tutelano (60% ritiene non sia adeguatamente tutelato). A tal punto che per il 35% l’ideale è proprio non investire, tenersi i soldi o spenderli, dato in crescita di 5 punti rispetto al 2018 e che raggiunge il massimo dell’avvio dell’indagine nel 2001 quando erano il 21%. (riproduzione riservata)

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