Il 9 ottobre 2019, la Turchia ha lanciato un’operazione militare nella regione orientale del fiume Eufrate, nel nord della Siria, contro le Forze Democratiche Siriane a guida curda (SDF), con l’obiettivo di proteggere i suoi confini e l’unità territoriale della Siria eliminando i gruppi terroristici. L’operazione ha anche lo scopo di creare una “zona cuscinetto” e garantire il ritorno a casa dei rifugiati siriani, stimati a 3,5 milioni circa in Turchia. L’operazione arriva dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato di aver ritirato le proprie truppe “dalle zone di possibili incursioni turche”.
La Turchia confina con la Siria per 911km. Il Paese considera l’YPG curdo (Unità di Protezione Popolare), la componente chiave dell’SDF, come gruppo terroristico collegato al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), ritenuta un’organizzazione terroristica non solo dalla Turchia ma anche da Stati Uniti e UE. La Turchia ha dichiarato di condurre le operazioni militari sulla base del diritto all’autodifesa sancito dal diritto internazionale (delibera del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e art. 51 della Carta delle Nazioni Unite). Dall’inizio della guerra civile nel 2011, la Turchia ha subito numerosi attacchi missilistici provenienti da questa zona con l’uccisione di civili. La Turchia prevede inoltre di trasferire in Siria 2 mln di siriani in un’area di sicurezza con un’estensione di 30km.
Questa operazione è un proseguimento delle precedenti. Nella Siria nord-occidentale, la Turchia ha condotto due operazioni (Euphrates Shield nel 2016-2017 e Olive Branch nel 2018) per sterminare le minacce da parte dello Stato Islamico e del YPG, situati nel nord della Siria. Il Paese ha neutralizzato più di 3.000 terroristi dell’Isis durante l’operazione Euphrates Shield. Queste operazioni hanno consentito alla Turchia di liberare dall’Isis una superficie di 4.000km2 in Siria. Parallelamente, la Turchia aveva anche avviato le operazioni Claw 1, 2, 3 nel nord dell’Iraq per colpire i membri del PKK. La Turchia ha criticato gli Stati Uniti per aver lavorato e fornito a YPG/PKK armi e munizioni.
Quali i rischi? Lo rivela un’analisi di Coface
1. L’operazione è stata appoggiata sul fronte interno dal governo turco e dai principali partiti di opposizione. Sul fronte internazionale, in una serie di messaggi contradditori, il presidente degli Stati Uniti Trump ha inizialmente minacciato di voler “rovinare l’economia turca”. L’11 ottobre, l’amministrazione americana ha dichiarato di voler stabilire nuove importanti sanzioni per colpire la Turchia e ne ha informato le banche. Il 14 ottobre, gli Stati Uniti hanno sanzionato tre Ministri turchi insieme al Dipartimento della Difesa e al Ministero dell’Energia. Il presidente degli Stati Uniti ha anche ordinato un aumento dei dazi sull’acciaio e ha immediatamente annullato i negoziati per un accordo commerciale di 100 mld di dollari con la Turchia.
2. L’UE ha condannato l’operazione turca; la Germania, i Paesi Bassi e la Francia hanno dichiarato di voler congelare le esportazioni di armi in Turchia. Non è stata emessa alcuna dichiarazione di condanna da parte delle Nazioni Unite. La NATO aveva espresso fiducia nella discrezione della Turchia nell’operazione antiterrorismo nella Siria nord-orientale. Tuttavia, alcuni membri dell’alleanza (Germania, Francia, Paesi Bassi e Regno Unito) non appoggiarono l’alleato turco.
3. Nel 2018, principalmente a causa di crescenti problemi pluridimensionali, le relazioni turco-statunitensi si erano già incrinate (posizioni diverse su PKK/YPG, Cipro, Iran, Siria, Gulen, S400 ecc.). Nell’agosto 2018, la lira turca si è indebolita a un massimo storico di 7,24 rispetto al dollaro in seguito alle incertezze politiche interne e all’escalation delle tensioni con gli Stati Uniti sul fallimento della Turchia nella liberazione di un pastore americano fatto prigioniero. Lo shock valutario ha portato l’economia alla recessione nel secondo semestre 2018. Prima del lancio dell’operazione militare, la situazione macroeconomica stava migliorando: la lira era più stabile, l’inflazione in diminuzione da due anni del 9% e il conto corrente registrava un’eccedenza.
4. Il modello economico della Turchia, che dipende direttamente dai prestiti esteri, presenta una debolezza strutturale. La preoccupazione degli investitori per ulteriori sanzioni statunitensi incidono negativamente sulle attività turche. Rispetto alla chiusura di venerdì 4 ottobre, la lira ha subito un calo del 4% rispetto al dollaro, il principale indice azionario BIST-100 è sceso di quasi il 9% e il Credit Default Swap (CDS) turco a 5 anni, il costo dell’assicurazione contro il rischio di insolvenza è salito a 411 punti di base, a un massimo di 6 settimane. Si prevede che l’impatto delle recenti sanzioni statunitensi sarà limitato dal momento che le esportazioni di acciaio della Turchia negli Stati Uniti ne hanno già risentito (-71,5% a/a gennaio-settembre 2019).
Per quanto riguarda le sanzioni contro i funzionari e le istituzioni turche, alcuni analisti stimano che la Turchia risponderà nel rispetto della clausola della reciprocità, in diplomazia. Tuttavia, eventuali sanzioni nei confronti delle banche turche indebolirebbero ulteriormente i mercati turchi. Un forte deprezzamento della lira peserebbe sulla fiducia, già compromessa. Inoltre, dal momento che il Paese dipende principalmente dall’importazione di input, una lira più debole aumenterebbe i costi di produzione dei produttori turchi, provocando ulteriori pressioni inflazionistiche al rialzo. Di conseguenza, gli investimenti e i consumi sarebbero influenzati negativamente, con un impatto sulla crescita in ripresa, i margini di profitto delle imprese e i loro flussi di cassa.