Ogni italiano paga, in media, 1,8 mila euro di tasse l’anno finalizzate al servizio sanitario
Un dossier sulla sostenibilità dell’assistenza pubblica
di Carlo Valentini Twitter: @cavalent
«Il sistema sanitario nazionale non regge. Era stato impostato su bisogni che negli anni sono fortemente cambiati. Oggi c’è richiesta di prevenzione e in più l’invecchiamento della popolazione impone risposte che il ssn non è in grado di fornire, tra l’altro nell’impossibilità di aumentare la spesa pubblica. Il fatto è che nessuno sembra porsi il problema del che fare e intanto la sanità scivola verso il privato tanto che tra 5 anni si calcola che ogni cittadino pagherà di tasca propria, per ottenere le cure, 900 euro, oltre a quanto paga per il ssn, in media 1,8 mila euro di tasse finalizzate al ssn»: Marco Vecchietti è l’ad di Rbm, una delle tre principali società (le altre sono Generali e Unipol) che si occupa di assistenza integrativa, le strutture di cura convenzionate (pubbliche e private) sono oltre 400. È controllata da un gruppo di imprenditori veneti riuniti in RbHold. Ha appena vinto la gara per la sanità integrativa dei metalmeccanici, che l’hanno ottenuta col rinnovo del contratto di lavoro. L’8 maggio presenterà alla Camera un dossier sulla sanità italiana (in collaborazione con il Censis) che anticipiamo.
Si conclude con la proposta di un terzo pilastro-cuscinetto, quello dell’assistenza integrativa più o meno obbligatoria tra il pilastro pubblico e quello privato «in modo –questa è la tesi del dossier- da interagire col pubblico e rispondere a quei bisogni sanitari delle persone che oggi sono scoperte ma anche da calmierare il business privato». Spiega Vecchietti: «Il ssn è già un sistema misto, il 40% delle prestazioni avvengono in strutture private, di esse il 16% in convenzione col pubblico e il 24% in regime di pura solvenza. Un altro dato interessante è che su una spesa sanitaria complessiva di 154 miliardi, il 74% è pubblica e il 26% pagata direttamente dai cittadini. Quest’ultima quota si è raddoppiata in pochi anni e senza interventi è destinata a registrare un exploit in tempi brevi. Lo scorso anno gli italiani hanno pagato di tasca propria quasi 150 milioni di prestazioni sanitarie, cioè erogate fuori dal ssn con un incremento di quasi 54 milioni di prestazioni (+57%) rispetto al 2017. Si tratta di un trend che dovrebbe spaventare».
Domanda. Quali sono le prestazioni per le quali ci si rivolge maggiormente alla sanità privata?
Risposta. Avvengono in strutture private, pagate direttamente dai pazienti, l’89,2% delle cure odontoiatriche, il 77,5% dell’acquisto di lenti e occhiali, il 68,7% dell’acquisto di protesi, il 54,6% delle visite specialistiche, il 34,6% dell’acquisto di farmaci, il 22,6% degli esami diagnostici.
D. Il rischio è che il livello del reddito determini le possibilità di cura di una persona.
R. Sì, la vera emergenza sanitaria è la crescita della spesa privata, che è la più grave forma di disuguaglianza in quanto mette i cittadini di fronte alla scelta tra pagare o rinunciare alle cure, minando uno dei principi su cui si basa il servizio sanitario. Anche perché, a differenza di quanto si crede, di fronte a un problema sanitario anche chi ha redditi non elevati si trova a volte costretto a ricorrere al privato: il 24% della spesa sanitaria privata è sborsata da persone che hanno meno di 35mila euro l’anno di reddito. Nel 2017 oltre 11 milioni di italiani hanno dovuto indebitarsi per finanziare le proprie cure mentre 12 milioni hanno rinviato e rinunciato alle cure per questioni economiche.
D. La sanità pubblica teme che quella privata voglia annientarla.
R. La risposta non è chiudersi a riccio. Faccio un esempio: noi abbiamo convenzioni con gli ospedali pubblici che hanno reparti a pagamento o dove i medici svolgono pure attività per loro conto al di fuori dell’orario di lavoro. Si tratta di finanziamenti che dalla sanità integrativa passano, in parte, al ssn, che quindi si rafforza.
D. Non tutto però può essere risolto col l’assistenza integrativa.
R. È vero, però il ssn va ripensato, col sistema pubblico concentrato sulle emergenze e sugli alti profili d’intervento, il privato che si occupa di prevenzione, cronicità delle malattie dell’anziano, che aiuta a superare talune dèfaillance del pubblico, pensiamo alle liste d’attesa troppo lunghe, e l’assistenza integrativa che dialoga sia col pubblico che col privato per offrire la migliore risposta possibile senza choc sul reddito o sui risparmi del paziente ed evitando che il privato finisca per cannibalizzare il pubblico, portando la spesa sanitaria sul consumismo e fuori controllo. Sarebbe indispensabile introdurre il «reddito di salute», ovvero una forma sanitaria integrativa diffusa, sull’esempio di quanto avviene in campo pensionistico, dove chi è occupato versa un contributo che in parte copre anche chi non ha reddito. E’ ciò che avviene, per esempio, in Francia, dove, quando finisce l’assistenza pubblica interviene la sanità integrativa. In Italia già 13 milioni di persone hanno la sanità integrativa, è una platea che va allargata.
D. A dettare legge sulla sanità sono però le Regioni.
R. Le Regioni hanno già la possibilità di attivare fondi sanitari integrativi per i propri cittadini e in Lombardia e in Veneto sono stati realizzati fondi per l’occupazione che prevedono la sanità integrativa. Quindi le Regioni, se vogliono, possono svegliarsi e diventare protagoniste attive del ripensamento dell’offerta sanitaria.
D. All’estero cosa avviene?
R. L’Italia, per varie ragioni, è il Paese dove c’è scarsa collaborazione tra i soggetti che si occupano della sanità, ognuno va per proprio conto. Nella maggior parte dei Paesi europei, invece, vi è una cabina di regia in modo che non vi siano diseconomie e ognuno partecipi al comune obiettivo di rispondere alla domanda sanitaria dei cittadini.
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