di Andrea Rapaccini – presidente di Mbs Consulting
Nell’Italia che cresce a un passo da zero-virgola c’è un comparto industriale enorme che mette a segno fatturati da Via della Seta. Si tratta dell’industria del benessere, l’insieme delle soluzioni per salute, assistenza, istruzione, cultura, supporti al lavoro, previdenza. Certo, parlare di industria può sembrare provocatorio, addirittura fuorviante. Welfare è infatti un termine che storicamente si associa a intervento (e a un costo) sostenuto dal sistema pubblico, per qualcuno in modo esclusivo.
In realtà la spesa «out of pocket» sostenuta dalle famiglie italiane, secondo i dati del Rapporto Mbs Consulting appena pubblicato, è stata nel 2018 di 143,4 miliardi, pari all’8,3% del pil, in crescita, appunto, del 6,9% rispetto al 2017, con all’interno filiere che si sviluppano a due cifre (salute e assistenza ad anziani e autosufficienza). In altre parole, gli italiani destinano al welfare più di quanto facciano per nutrirsi (l’industria alimentare ha un fatturato di 137 miliardi), vestirsi (la moda vale 95,7 miliardi) o arredare casa (il mobile ha un giro d’affari di 41,5 miliardi), per citare solo tre classici comparti del made in Italy.
L’esigenza di sviluppare nuove politiche nell’industria del welfare trova ragioni molteplici. Innanzitutto, il nostro sistema di welfare pubblico, costruito secondo logiche di «uguali prestazioni per tutti», nella realtà è tutt’altro che equo. In media ogni famiglia italiana spende in welfare 5.611 euro, ma l’incidenza percentuale di questa spesa sul reddito e` massima nel segmento dei meno abbienti (22,8%), e molto più bassa negli altri segmenti (16%). Questa differenza racconta la fatica delle famiglie più fragili. E ci aiuta a spiegare il fenomeno delle rinunce alle prestazioni, che per fare solo l’esempio della salute riguarda il 40,8% delle famiglie, con punte del 61,5% nel segmento della debolezza. In conclusione, l’obiettivo di garantire un accesso alle prestazioni essenziali commisurato alle capacità economiche resta inattuato.
In secondo luogo, in un Paese socialmente e demograficamente maturo come il nostro (dove gli over-60, ormai vicini al 30%, hanno superato gli under-30) i consumi di benessere sono destinati a caratterizzare l’evoluzione del mercato e della società nei prossimi dieci anni. E le imprese operanti in questo settore (dalla sanità alle biotecnologie, alla farmaceutica, dai servizi di assistenza a quelli per l’educazione, dalla cultura alla protezione dei rischi) possono attrarre investimenti, innovare il sistema e trainare a lungo termine crescita economica e pil. Inoltre, anche l’Italia è investita da un cambiamento socio-culturale di vasta portata, che cambia la domanda di welfare e la colloca su un piano diverso rispetto al passato. Lo si osserva bene nell’ambito sanitario, dove emerge la richiesta di un’assistenza sanitaria continua, capace di seguire individualmente le persone e di guidarle nella scelta e gestione delle prestazioni.
Il nostro sistema sanitario, strutturato in servizi specialistici, è invece ancora un modello di prestazione on demand, che lascia l’iniziativa al paziente. La strada che il nostro welfare ha davanti dunque è duplice: assicurare livelli essenziali di sicurezza sociale e benessere per tutti i cittadini, e assecondare l’evoluzione di una domanda che si fa sempre più sofisticata, e richiede innovazione non solo in campo sanitario, ma anche nel campo dell’istruzione e dell’assistenza. Infine questa nuova «economia del welfare» già oggi garantisce occupazione stabile non solo nelle strutture pubbliche, ma anche in quelle del privato e del privato sociale; investire nel benessere potrebbe fare crescere ulteriormente l’occupazione e regolarizzare le posizioni di alcuni lavoratori in nero, presenti soprattutto nell’ambito dell’assistenza famigliare.
È proprio considerando il welfare come un nuovo ecosistema industriale che si può superare questa impasse. Per rispettare il carattere universalistico del sistema di protezione sociale è essenziale mantenere la centralità del welfare pubblico. Ma lo Stato e gli Enti locali devono ridisegnare i propri ruoli, da operatori e gestori di prestazioni ad architetti di un nuovo modello. Occorre garantire e focalizzare la spesa pubblica su alcune prestazioni essenziali, ma uscire dall’erogazione diretta per altre non fondamentali.
Il mondo dei produttori di servizi di welfare è chiamato a una profonda trasformazione. Operatori che sino a ieri fornivano servizi indifferenziati e per lo più regolati da convenzioni saranno chiamati a differenziare la propria offerta per segmenti di mercato e canali di accesso alla domanda. Cliniche mediche, poliambulatori, centri di assistenza, reti di supporto alle famiglie, centri di educazione dovranno acquisire la capacità di ridisegnare il proprio sistema di business, sviluppare competenze di marketing dell’offerta, e scegliere un posizionamento distintivo sul mercato sia dal punto di vista dell’impatto sociale e del profilo prestazionale.
Sarà per loro più agevole se sapranno fare rete con soggetti del Terzo Settore, come Cooperative e Imprese sociali, già essenziali per i servizi di prossimità. E se avranno come leva il potenziale costituito dal «capitale paziente» (fondi pensione, fondi strutturali europei, gruppi assicurativi, fondi di impact investing) per avviare investimenti correlati a ritorni economici e sociali misurabili. Tutto questo è un’operazione di sistema che richiede alla politica una visione che guardi a un orizzonte di almeno dieci-venti anni. (riproduzione riservata)
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