di Vittorio Meloni
Gli italiani, è cosa nota, sono tra i più grandi risparmiatori al mondo. La ricchezza finanziaria nelle mani dei nostri concittadini ammonta a 4,4 trilioni di euro, cui aggiungere, secondo le stime disponibili, almeno altri 4 trilioni di ricchezza reale, fatta in prevalenza di immobili e terreni. In totale, un valore pari a circa cinque volte il pil. Il risparmio rappresenta da sempre la forza nascosta del sistema Italia, la leva su cui si è retto per decenni il debito dello Stato, grazie alla sottoscrizione di titoli, come Bot e Cct, che hanno fornito, negli anni dell’iperinflazione, un rifugio sicuro e nel complesso ben remunerato alle finanze di individui e famiglie.
La lunga stagione dei cosiddetti Bot people si è conclusa con la progressiva riduzione dei tassi, da diversi anni ormai intorno allo zero, che ha pressoché cancellato qualsiasi apprezzabile rendimento su quel genere di impieghi. In parallelo, i mercati finanziari, anche da noi, hanno subito un’importante evoluzione. Grandi masse di denaro destinate all’acquisto di titoli pubblici, per lo più a breve, si sono in parte indirizzate verso nuovi sbocchi. In particolare, il risparmio gestito, che è diventato negli ultimi dieci-quindici anni la più generosa fonte di profitto delle banche, i cui proventi da intermediazione, nello stesso arco di tempo, si sono compressi, sempre a causa di tassi reali bassissimi o addirittura negativi.
La tendenza al risparmio, nonostante le ripercussioni negative della crisi sul reddito disponibile e le conseguenze durature di forte disoccupazione e bassi salari, si mantiene elevata. Si spende meno, qualche volta si spende meglio. Soprattutto, si risparmia (lo fa almeno il 47% delle famiglie), che è la reazione più istintiva degli italiani ai possibili rischi di un futuro incerto. È molto probabile che le avvisaglie di una nuova recessione producano un’ulteriore riduzione della spesa. Sotto le apparenze di un comportamento inappuntabile in quanto a prudente gestione delle entrate, si celano però alcuni aspetti problematici. Tra tutti, lo stato della cultura finanziaria, con la quale si intende l’insieme di conoscenze atte a comprendere, in termini generali, i principali aspetti del funzionamento dei mercati e dei prodotti che in quei mercati ci si scambia. Sotto questo profilo, a giudicare dalle indagini e dai confronti internazionali, l’Italia non brilla.
Solo il 37% degli italiani è in grado di spiegare almeno tre concetti base di finanza, contro una media Ue del 52%. La paura dei mercati e una ridotta conoscenza del loro funzionamento tiene lontane le famiglie dall’acquisto di azioni, spingendole a restare prevalentemente investite in obbligazioni, senza peraltro comprenderne il livello di rischio, molto più elevato che in passato. Oppure, a rimanere completamente liquide, a causa dei bassi rendimenti dei titoli di Stato, facendo aumentare i depositi sui conti correnti, completamente privi di remunerazione, di 40 miliardi in pochi anni. Le soluzioni a medio-lungo termine non attraggono gli italiani.
La previdenza integrativa, ad esempio, costituisce un investimento trascurabile: solo 1 su 5 tra gli under 45 anni avrà una pensione complementare, ben al di sotto della media dei paesi più avanzati, dove questo tipo di investimento è considerato fondamentale. Nemmeno i ricorrenti allarmi sull’enorme disavanzo previdenziale pubblico, né il trauma delle recenti riforme pensionistiche sembrano accendere l’interesse per una modalità di risparmio forzoso tra le più redditizie sul lungo periodo. Se guardiamo ad altre classi di età, la situazione è anche più sconsolante. Tra i quindicenni dell’area Ocse, siamo nelle ultime posizioni quanto a conoscenze di tipo finanziario, davanti alla Colombia. Giovani troppo a lungo dipendenti dalla gestione economica genitoriale, che ritarda, insieme ad altri fattori, il conseguimento di una progressiva autonomia.
C’è, poi, il cosiddetto investimento sicuro, cioè gli immobili, la destinazione preferita del risparmio delle famiglie. Scelta che tanto sicura e sensata non si è rivelata, visto il pesante onere fiscale che si è abbattuto negli ultimi anni su cespiti che, nel frattempo, hanno perso una parte rilevante del loro valore di mercato. Della frazione, non trascurabile, di reddito che si trasforma in risparmio ben poco va all’investimento in capitale umano, in particolare formazione d’alto profilo, universitaria e post universitaria, in Italia o all’estero, dei nostri ragazzi. Investimento che, come attestano unanimemente tutte le ricerche, assicura i ritorni in assoluto più elevati, riflettendosi sul livello di reddito che sarà percepito, a medio termine, dai giovani highly educated.
I risparmi gestiti senza cultura producono meno ricchezza, riducono le opzioni disponibili e generano più ansia, specie di fronte a fenomeni insoliti o sconosciuti (vedi l’effetto spread sul valore percepito dei Btp). Il sapere e l’informazione, invece, ci rendono più consapevoli e più liberi in ogni ambito, compreso quello della gestione del denaro. Che se non è più lo sterco del demonio di medioevale memoria, è pur sempre una sostanza da maneggiare con attenzione. Soprattutto, con competenza. (riproduzione riservata)
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