Il rapporto Censis-Eudaimon fotografa la diffusione e i benefici dei piani per i lavoratori
Prevenzione e assistenza tra i servizi preferiti in azienda
di Sabrina Iadarola
L’Italia crea meno posti di lavoro degli altri Paesi europei, ma si lavora di più. Sembra un gioco di parole, ma è questa la sintesi che fa del nostro Paese il 2° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale.
In dieci anni (2007-2017) il numero di occupati in Italia è diminuito dello 0,3%. Mentre è aumentato in Germania (+8,2%), Regno Unito (+7,6%), Francia (+4,1%) e nella media dell’Unione europea (+2,5%). Con un’occupazione che al Sud è pari al 34,3% (2,9 punti percentuali in meno di differenza rispetto al 2007), al Centro è al 47,4% (lo 0,4% in meno), nel Nordovest al 49,7% (l’1,1% in meno), nel Nordest al 51,1% (l’1,3% in meno). Dunque meno lavoro degli altri Paesi. E anche retribuito peggio. Rispetto al 1998, nel 2016 il reddito individuale da lavoro dipendente degli operai è diminuito del 2,7% e quello degli impiegati si è ridotto del 2,6%, mentre quello dei dirigenti è aumentato del 9,4%. Confrontando un dipendente operaio con un dirigente, nel 1998 il reddito da lavoro del primo era pari al 45,9% di un dirigente. Nel 2016 è diventato pari al 40,9%. Quello di un impiegato era il 59,9% di quello di un dirigente e si è ridotto al 53,4% nel 2016.
In compenso però gli italiani sono gran lavoratori. Il 50,6% dei lavoratori afferma che negli ultimi anni si lavora di più, con orari più lunghi e con maggiore intensità. Sono 2,1 milioni i lavoratori dipendenti che svolgono turni di notte, 4 milioni lavorano di domenica e nei giorni festivi, 4,1 milioni lavorano da casa oltre l’orario di lavoro con e-mail e altri strumenti digitali, 4,8 milioni lavorano oltre l’orario senza il pagamento degli straordinari. Con quali effetti? Innanzitutto lo stress. Spossatezza, mal di testa, insonnia, ansia, attacchi di panico, depressione riguardano 5,3 milioni di lavoratori dipendenti. 4,5 milioni non hanno tempo da dedicare a se stessi (per gli hobby, lo svago, il riposo), 2,4 milioni vivono contrasti in famiglia proprio perché lavorano troppo.
Il welfare aziendale ci salverà? Sembra proprio di si, a sentire gli stessi lavoratori. Da una indagine su 7 mila lavoratori che beneficiano di prestazioni di welfare aziendale risulta che l’80% ha espresso una valutazione positiva, di cui il 56% ottima e il 24% buona. Ma quale welfare? Tutela della salute innanzitutto, con iniziative di prevenzione e assistenza (42,5%). Seguono i servizi di supporto per la famiglia (servizi per i figli e per i familiari anziani) (37,8%), le misure di integrazione del potere d’acquisto (34,5%), i servizi per il tempo libero (banca delle ore e viaggi) (27,3%), i servizi per gestire meglio il proprio tempo (soluzioni per risolvere incombenze burocratiche e il disbrigo delle commissioni) (26,5%), infine la consulenza e il supporto per lo smart working (23,3%).
E così, il welfare aziendale che, solo qualche tempo fa, sedeva in panchina, per utilizzare una metafora calcistica, ora è entrato in gioco e, nel giro di poco, si è posizionato al centro del campo. Una conferma era arrivata anche dai dati dell’Ocsel, l’Osservatorio sulla contrattazione di secondo livello della Cisl che evidenziavano che nel 2016-2017, il 27% dei contratti aziendali censiti si era occupato di welfare. Nel biennio precedente, si era fermi al 18%. Anche secondo i dati del ministero del Lavoro aggiornati a novembre 2018, i contratti di questo tipo sono cresciuti del 61% rispetto all’anno precedente. Un aumento sostenuto, che però sconta forti differenze: la metà degli accordi riguarda imprese con meno di cinquanta dipendenti e solo il 15% quelle tra 50 e 100. Essendo le piccole e medie imprese una larga maggioranza, resta quindi il rischio che un gran numero di lavoratori sia escluso dai benefici di questo «secondo welfare», proprio in un momento in cui il primo, quello pubblico, fa sempre più fatica. La parola chiave diventa quindi «consapevolezza», nelle aziende che devono comprenderne l’utilità. E nei lavoratori che devono comprenderne i benefici. Perché, ritornando ai dati Censis, il welfare aziendale laddove ben gestito può e va ad incidere concretamente su «sentiment», approcci, visioni, opinioni e valori dei lavoratori, quando appunto essi stessi ne diventano consapevoli. Il welfare aziendale, raccontano i beneficiari, migliorando il benessere e la qualità della vita può portarti a vedere con occhi diversi l’azienda, a percepirla come un soggetto che è al tuo fianco nel bisogno, e così ne puoi. parlare bene con gli altri, non hai voglia di fuggire via, senti un senso di appartenenza. Ecco il valore vero del welfare aziendale per il lavoro e per le aziende: contribuire a un diverso modo di relazionarsi, facilitare quel passaggio storico, difficile ma possibile, verso la convergenza degli interessi piuttosto che il conflitto permanente. Il welfare aziendale riguarda infatti la relazione presente e futura tra le aziende e i lavoratori, e quella tra la società e il lavoro, allora è indispensabile incastonarlo nelle dinamiche di intensa trasformazione che quei mondi stanno subendo.
Il welfare aziendale nell’ultima Manovra. L’ondata di riforme in materia di welfare aziendale iniziata con la legge di Stabilità del 2016, poi proseguita con le Manovre del 2017 e del 2018, sembra aver subito un irrigidimento. L’ultima legge di Bilancio ha previsto interventi attraverso il Fondo per le politiche della famiglia. Nel 2019 quindi saranno certamente finanziati progetti e interventi per la promozione del welfare aziendale (la Manovra cita infatti le misure previste dall’articolo 9 della legge 53/2000 che riguardano progetti finalizzati a consentire alla lavoratrice madre o al lavoratore padre di usufruire di particolari forme di flessibilità degli orari e dell’organizzazione del lavoro, tra cui part-time, smart working e telelavoro, orario flessibile in entrata o in uscita, banca delle ore, flessibilità sui turni, orario concentrato; programmi di formazione per il reinserimento dei lavoratori dopo il periodo di congedo; progetti che consentano la sostituzione del titolare di impresa o del lavoratore autonomo, nel momento in cui questo beneficia del periodo di astensione obbligatoria o dei congedi parentali; interventi e azioni volti a favorire la sostituzione, il reinserimento, l’articolazione della prestazione lavorativa e la formazione dei lavoratori con figli minori o familiari non autosufficienti a carico). Ma lasciar ancorato il welfare aziendale al Fondo per le politiche della famiglia, equivale anche a dire che la materia, da parte del governo gialloverde rispetto al passato, è pensata tendenzialmente in un’ottica di sostegno alla genitorialità. Cioè la Manovra ne parla prevalentemente (se non esclusivamente) con un approccio di armonizzazione dei tempi di lavoro e di cura. Il che preoccupa. Perché in una fase storica di ritorno prepotente delle disparità sociali fin dentro il cuore delle aziende e della ripartizione del valore economico nelle aziende stesse, la capacità potenziale del welfare aziendale di incidere sul rapporto tra lavoratori e aziende potrebbe diventare un fattore inestimabile di crescita, di modernizzazione di rapporti di lavoro e relazioni industriali. Dunque da valorizzare.
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