Nel 2019 partirà il provvedimento Quota 100 per le pensioni anticipate. Ma le finestre mobili di tre-sei mesi, previste per ridurre la spesa, creano evidenti distorsioni tra i lavoratori
di Roberta Castellarin e Paola Valentini

La storia del sistema previdenziale italiano, nato nel 1898 con la Cassa nazionale di previdenza, da sempre fa i conti tra gli interessi contrapposti del Bilancio dello Stato e quelli dei lavoratori, che fanno pressione sui politici affinché il momento della pensione non arrivi troppo in là con gli anni. Oggi nella partita entra in campo anche l’Europa, con un ruolo da vigilantes sul rispetto dei conti in ordine. Proprio dal confronto con l’Ue è scaturito un taglio per lo stanziamento della riforma delle pensioni con quota 100, che è sceso dall’iniziale stima di 6,7 miliardi a 4 miliardi, come si legge nell’allegato alla lettera inviata dall’Italia a Bruxelles.

E così nel tira e molla tra governo e Commissione sull’introduzione di maggiore flessibilità nel sistema previdenziale, per superare almeno in parte i paletti introdotti dalla riforma Fornero di inizio 2012, sono rispuntate le finestre, che da sempre rappresentano un fattore distorsivo del sistema. Già introdotte dall’allora ministro del Lavoro Roberto Maroni nel 2004, le finestre allungano l’attesa dal momento che si matura il diritto alla pensione a quello in cui si può lasciare davvero il lavoro. Applicate poi a una misura temporanea, come quella prevista dalla manovra di bilancio, creano casi di confine tra quasi coetanei. Come emerge dalle simulazioni che la società di consulenza indipendente Progetica ha effettuato per MF-Milano Finanza su quota 100 fino al 2021 e poi dal 2022 quota 41.
«Come già accaduto in passato, una misura temporanea, in questo caso quota 100 per tre anni, avrebbe l’effetto di creare scalini a fronte di piccole differenze anagrafiche o di storia contributiva. Per esempio, un nato del 1959 che avesse iniziato a lavorare a 24 anni nel 1983 sarebbe uno degli ultimi a beneficiare di quota 100 nel 2021, quando avrebbe 62 anni con 38 di contributi; un suo coetaneo che avesse iniziato a lavorare l’anno dopo, o che avesse accumulato un anno di buco contributivo, si ritroverebbe invece a dover aspettare il requisito di pensione anticipata a 41 anni di contributi, che maturerebbe quasi quattro anni dopo, nel 2025», dice Andrea Carbone di Progetica.

È solo uno dei possibili casi «di confine»: quando sarà disponibile il testo definitivo della riforma, comprensivo del chiarimento sulle finestre e sull’applicazione o meno dell’adeguamento per la speranza di vita, si potrà valutare complessivamente l’impatto delle nuove regole. In pratica dal 2019 fino al 2021 sarà possibile andare in pensione con 62 anni di età e 38 di contributi, cinque anni di anticipo rispetto ai 67 anni di età naturali previsti per la vecchiaia. Le finestre, però, sono mobili: tra il momento in cui si raggiungerà quota 100, cioè 62 anni d’età e 38 di contributi, e il momento in cui verrà effettivamente pagata la pensione passeranno tre mesi, che potrebbero salire a sei se l’afflusso delle domande dovesse rivelarsi superiore alle attese. Per i dipendenti pubblici la finestra sarà da subito di sei mesi.
Ma la normativa non partirà dal 1° gennaio 2019, perché l’intenzione del governo è far esordire la misura a inizio aprile, con un ulteriore slittamento di tre mesi per il pubblico. In particolare, chi ha i requisiti previsti dalla riforma «nel privato potrà andare in pensione dal primo aprile, nel pubblico per motivi normativi dal primo giugno», ha dichiarato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il leghista Giancarlo Giorgetti. Di conseguenza, se questa tempistica sarà confermata nel decreto ad hoc previsto per gennaio dopo il varo della manovra, considerando le finestre di tre-sei mesi, i dipendenti del privato potrebbero ritirarsi a partire da luglio, mentre per i lavoratori statali l’attesa di un semestre tra il momento di maturazione dei requisiti e quello di effettivo pensionamento, comporterebbe uno slittamento fino a ottobre.

Questi periodi di vuoto contribuiranno a far scendere la spesa per quota 100 dai 6,7 miliardi inizialmente previsti dalla prima manovra ai 4 miliardi indicati nella nuova legge di bilancio presentata all’Ue. Infatti si prevede che circa 600 mila persone lascino il lavoro con quota 100 nei prossimi tre anni e il grosso è nel 2019 (350 mila persone). Per disincentivare le richieste di pensionamento è previsto anche il divieto di cumulo: chi userà quota 100 non potrà arrotondare sommando alla pensione redditi da lavoro superiori ai 5 mila euro lordi l’anno.
Il divieto avrà una durata uguale agli anni di anticipo rispetto al requisito per la pensione di vecchiaia, ovvero 67 anni di età. Senza dimenticare che chi andrà in pensione con quota 100, oltre a vedersi decurtare l’assegno per l’anticipo rispetto a chi va in pensione a 67 anni (dato che si versano contributi per meno anni) rischia di essere penalizzato anche per via del previsto blocco della rivalutazione delle pensioni (e se ha un’assegno previdenziale d’oro dovrà pagare pure il contributo di solidarietà). Intanto l’anzianità contributiva a quota 41 anni, che all’inizio doveva partire anch’essa nel 2019, è stata posticipata al 2022 quando sostituirà quota 100. Restano invece in piedi l’opzione donna, l’Ape social e l’Ape volontaria, ovvero tutte le misure alternative già previste oggi per il pensionamento anticipato. (riproduzione riservata)

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