Nel risarcimento del danno subito dalla casalinga, se viene accertata una perdita o riduzione della capacità lavorativa (generica), possono applicarsi – avuto riguardo al grado percentuale di invalidità permanente accertato in sede medico legale – le presunzioni intese a provare la esistenza di un danno patrimoniale – emergente e da lucro cessante- determinato dall’impedimento o dalla riduzione dell’attività di lavoro domestico che il soggetto svolgeva – anche – a suo favore.
Se invece il lavoro domestico era svolto a titolo gratuito o in adempimento dei doveri di solidarietà familiare, a vantaggio di soggetti terzi, i danneggiati sono esclusivamente questi ultimi: trattandosi di attività suscettiva di valutazione economica, e che potrà ricevere adeguato ristoro attraverso il criterio di liquidazione equitativa del danno, tenuto conto dei parametri forniti dal calcolo del reddito figurativo desunto dal contratto collettivo delle COLF (contratto collettivo di lavoro) ovvero del criterio legale del triplo della pensione sociale se, invece, viene accertato secondo i criteri propri della medicina legale un danno da cenestesi lavorativa – nel senso che l’attività domestica potrà essere espletata anche in futuro, ma in condizioni di usura maggiore o con maggiore gravosità-, senza che la invalidità si comunichi anche alla capacità lavorativa del soggetto (da intendersi come persistenza, nonostante i postumi invalidanti, della attitudine del soggetto a svolgere un determinato lavoro produttivo di un determinato reddito), allora un tale pregiudizio, che si colloca interamente nell’ambito della lesione del diritto alla salute, dovrà essere risarcito quale danno biologico e compensato attraverso la ulteriore congrua personalizzazione del valore-punto tabellare.
Cassazione civile sez. III, 19/07/2018 n. 19197