Dalla Mediobanca di Cuccia all’Italia senza Mediobanca. Fulvio Coltorti, storico capo dell’ufficio studi in Via Filodrammatici, ha scelto un brillante titolo giornalistico per riproporre un suo volume-intervista ancora fresco (La Mediobanca di Cuccia, con Giorgio Giovannetti, Giappichelli Editore, 2017). Coltorti, che oggi insegna business history alla Cattolica, non ha deluso la platea di aficionados che hanno risposto a un invito di Azimut . Ha difeso con abilità e ricchezza di argomenti anzitutto una tesi: il declino finanziario dell’«Italia senza Mediobanca » negli anni successivi alla scomparsa del fondatore e all’uscita di scena del suo delfino Vincenzo Maranghi non può essere in alcun modo attribuito a responsabilità o eredità negative della «Mediobanca di Cuccia».
E’ più probabile che si sia verificato il contrario: che sia stata l’unica vera banca d’affari italiana ad aver sofferto di un’involuzione complessiva dell’Azienda-Paese. Non è anzitutto colpa della Mediobanca di Cuccia se i grandi gruppi privati del novecentesco «capitalismo familiare senza capitali» (nel libro vengono citati assieme «Agnelli, Ferruzzi, De Benedetti, Pesenti, Benetton, Berlusconi, Pirelli ») hanno imboccato vie diverse di scomparsa, ridimensionamento, fuga all’estero. Né può essere ribaltata ancora su Mediobanca l’accusa mossa, con timing sbagliato e approccio superato, dall’Antitrust di Giuliano Amato e dalla Banca d’Italia di Antonio Fazio sulla posizione dominante di Via Filodrammatici nel mercato nazionale dell’investment banking. Proprio allora quel mercato si stava spalancando per l’avvicinamento all’euro e l’avvio delle grandi privatizzazioni. L’esito, sostenuto da politica e authority, fu quello prevedibile: l’effetto-Britannia portò alla completa colonizzazione dell’Italia da parte delle big anglosassoni nei grandi collocamenti e nell’m&a.
Non possono essere dimenticate neppure le ripercussioni di lungo periodo sulla struttura e stabilità del sistema bancario nazionale, custode di migliaia di miliardi di risparmi delle famiglie e di un importante mercato del credito non speculativo all’economia reale. Quando Coltorti ragiona, comunque, sul «declino di Mediobanca » nell’ultimo quindicennio, si concentra su uno specifico profilo critico. «Nata come parte importante dell’assetto istituzionale del settore bancario, ha apportato non solo un’attività complementare a quella delle Bin, ma soprattutto una capacità ineguagliata di innovazione. Con la sua competenza e la sua fantasia ha tentato di mantenere in vita la gamba privata della grande industria, ma non le è riuscito di far sistema con lo Stato, contribuendo direttamente quale strumento di politica industriale».
Coltorti non dimentica che Antonio Maccanico, presidente di Mediobanca all’epoca della privatizzazione, quando Maranghi fu rimosso sottolineò un nodo strutturale: «Esiste una patologia istituzionale nel fatto che le banche socie forti di Mediobanca siano anche sue concorrenti. Si tratta di stabilire quale ruolo debba avere Mediobanca ed è un capitolo difficile della ristrutturazione del sistema bancario nazionale». In quel cruciale 2003 Maccanico si mostrava convinto che la exit strategy di Mediobanca non avesse alternative alla tutela e allo sviluppo della sua tradizione di autonomia. Quindici anni dopo, Coltorti non sembra mettere in discussione quella visione. La sua «speranza» è che Mediobanca «possa presto ricominciare a essere l’unicum che ha rappresentato per settant’anni» e per il quale Cuccia e Maranghi hanno «lottato».
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