Rivoluzione o evoluzione?
di Daniela Runggaldier – Studio legale Molinari e Associati
Alla fine Godot è arrivato: dopo circa 350 giorni dall’avvio della pubblica consultazione, il 5 luglio scorso Ivass ha pubblicato il Regolamento n. 38/2018 che, pur salvaguardando alcuni principi della normativa previgente, ha profondamente rivisto la disciplina di governo societario nel solco di Solvency II. L’iter normativo è stato contrassegnato, da un lato, da stringenti vincoli comunitari e, dall’altro, dalla ricerca di un delicato equilibrio tra economie di scala e sinergie.
Qualche battaglia in sede di pubblica consultazione è stata vinta da Ania e altri stakeholders: dallo stemperamento del requisito di «non esecutività» del presidente (evidentemente incompatibile con il suo tradizionale ruolo di raccordo tra organi societari e base sociale che presuppone idonee deleghe gestionali) al riconoscimento della legittimità di forme di remunerazione basate su risultati di breve periodo, alla concessione di un periodo transitorio sino al 31 dicembre 2019 per l’adeguamento al nuovo regime.
Diversa, invece, la sorte di altre istanze di razionalizzazione e contenimento di oneri e costi: sono stati confermati l’obbligo di designare titolari interni delle funzioni fondamentali anche in caso di esternalizzazione infragruppo (con conseguente abolizione della più snella figura del «referente») e la partecipazione, anche in via stabile, dei predetti titolari alle riunioni consiliari.
Dall’analisi complessiva del Regolamento emergono chiare linee di policy normativa dell’Autorità: centralità dell’organo amministrativo quale ultimo responsabile del sistema di governance e crescente accostamento alla disciplina di banche e società quotate. Dimostrazione concreta di tale approccio (oltre alla figura del presidente non esecutivo, confermata nell’aprile scorso dalla Corte di Giustizia Europea nella pronuncia resa a favore di Bce contro alcune banche d’Oltralpe) è la scelta di estendere al settore assicurativo la presenza in consiglio, in misura «numericamente adeguata», di membri indipendenti (peraltro, secondo una nozione ancora indefinita nelle more dell’emanazione da parte del Mise del provvedimento che sostituirà il dm n. 220/11).
Altra analogia con il comparto bancario è la graduazione del regime di governance in base a parametri presuntivi legati a dimensione, complessità e profilo di rischio dell’impresa: tale distinzione consente di applicare la normativa in modo più aderente alla specifica realtà aziendale, ma si fonda su criteri talvolta eccessivamente rigorosi, tra cui, per esempio, l’inclusione dell’impresa con consistente operatività transnazionale nel regime rafforzato, nonostante tale modello non sia necessariamente indice di complessità operativa (soprattutto laddove l’impresa operi in regime di libera prestazione di servizi e per limitati rami). O ancora, considerare un elevato risk appetite quale fisiologico indice di complessità, senza valutare che, se accompagnato da un adeguato solvency ratio, tale fattore non dovrebbe di per sé tradursi in un inasprimento dei requisiti di governance.
Ma ciò che effettivamente occorre rilevare è il numero di imprese coinvolte dalla riforma: rispetto alle oltre 100 imprese autorizzate a operare in Italia, si prevede che approssimativamente 15 ricadranno nel regime rafforzato, 35 in quello ordinario e 60 in quello semplificato, fermo restando che tutte saranno indifferentemente chiamate, nel corso dei prossimi mesi, ad affiancare ai già assorbenti «cantieri» Idd, assurtech e semplificazione contrattuale, anche quello della revisione degli assetti di governance. I profili rispetto ai quali si prospettano impatti più pervasivi sono la composizione del board (da integrarsi con consiglieri indipendenti e presidenti non esecutivi), la ripartizione delle competenze di governance tra Usci e imprese controllate, la rinegoziazione dei contratti con responsabili delle funzioni fondamentali e outsourcers in punto di remunerazione. È evidente la ricaduta su budget aziendali già contenuti, equilibri di governance consolidati nell’ambito di joint ventures di lungo periodo, policies e procedure interne già testate e outsourcers fidelizzati e ben inseriti nel ciclo produttivo.
A fronte del chiaro intento, anche in sede comunitaria, di omogeneizzare normativa bancaria e assicurativa, ci si chiede se le istanze degli operatori nazionali avrebbero potuto trovare maggiore accoglimento, ove il Regolamento fosse stato preceduto da un’analisi d’impatto. È infatti innegabile che, pur a fronte di una crescente convergenza di prodotti, canali distributivi e strutture societarie conglomerali, vada riconosciuta al settore assicurativo una perdurante specificità e autonomia, anche in chiave storica. Difatti, se la crisi finanziaria ha evidenziato nel settore bancario l’esigenza di realizzare una discontinuità, anche in termini di governance, rispetto al passato e responsabilizzare maggiormente gli organi sociali alla luce dei nuovi meccanismi di coinvolgimento di azionisti e creditori nelle crisi bancarie ai sensi della direttiva Brrd, il mercato assicurativo italiano ha sempre presentato caratteristiche e struttura difformi, anche in termini di assetti di governo, solidità e grado di patrimonalizzazione, che meritano di essere tenuti in considerazione. (riproduzione riservata)
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