di Emilio Girino
Dal prossimo Capodanno la finanza s’arricchirà di una nuova sigla, dalla fonetica rumorosa e quasi irriverente: Priip. Salutata come la soluzione dell’irrisolto dilemma sulla trasparenza finanziaria, quella sigla potrebbe invece preludere a nuovi guai per clienti e intermediari. Priip sta per packaged retail investment and insurance-based investments products, cioè prodotti (quali Oic, derivati, polizze unit linked, depositi strutturati, obbligazioni convertibili) il cui pay-off è correlato alle fluttuazioni di valore di un’entità sottostante che l’investitore non detiene, il che rende più complesso cogliere il vero grado di rischio del prodotto. Tutto nasce dai due regolamenti Ue n. 1286/2014 e n. 653/2017: il primo introduce un (nuovo) Kid (Key information document), ossia tre pagine contenenti informazioni semplificate sul rischio espresso dal prodotto; il secondo detta le sofisticate regole tecniche per compilarlo (Milano Finanza della scorsa settimana vi ha dedicato un ampio servizio illustrativo). La principale novità è l’inclusione nel Kid degli scenari di performance, riassunti in una tabellina che traccia, lungo tre archi temporali di detenzione del prodotto, il possibile risultato dell’investimento. Risolta quindi l’annosa questione della bontà degli scenari probabilistici? Niente affatto. Per due ragioni. La prima è che la tabellina disegna quattro scenari (favorevole, sfavorevole, moderato e di stress) correlandoli a numeri assoluti ma senza esplicitare il livello di probabilità di accadimento di ciascuno di essi: l’investitore si trova di fronte dodici cifre secche senza poter cogliere quante probabilità vi siano che esse possano avverarsi. La seconda è che le misurazioni avvengono attraverso formule matematiche radicate su dati storici, cioè sui rendimenti passati, verso i quali altrove l’ordinamento nutre un’acuta allergia imponendo agli intermediari che ne facciano uso promozionale (cioè volontario) di allertare che il passato non equivale al futuro. Gli Rts, invece, li impiegano come strumento di misurazione del rischio futuro e li trasformano in informazione obbligatoria.
La discrasia muove dalla considerazione che le stime probabilistiche si basano su opzioni che variano da intermediario a intermediario. Non c’è dubbio: è il problema della stima del Mtm dei derivati, è il problema che si pone la regolamentazione Emir quando, in assenza di mercati attivi o in presenza di metodi plurimi, impone al produttore di adottare un modello univoco, testato e validato, è il problema che la revisione dei modelli interni di valutazione (Trim), avviata quest’anno dalla Bce, ambisce a risolvere. Ciò non toglie che è proprio a partire da uno o più di quei modelli che viene costruito e ingegnerizzato il prodotto, che quei modelli sono scenari di probabilità e che è questa l’informazione essenziale da comunicarsi all’investitore. E l’impossibilità di rendere comparabili prodotti analoghi non è una buona ragione per imporre un’informazione costruita solo su serie storiche e atta a disorientare chi investe.
Azzardiamo ora un esercizio giudiziario. Un investitore si è fidato dei dati di un Kid ma l’esito finale li sconfessa: nulla da eccepire, ogni scenario non è né una divinazione né una garanzia. Ma supponiamo che l’esito dell’investimento, ricostruito ex post con una consulenza tecnica, riveli che il metodo probabilistico impiegato per la costruzione del prodotto indicasse scenari diversi da quelli finiti nel Kid. Il cliente contesterà un’informazione fuorviante, la banca legittimamente invocherà la puntuale applicazione delle regole Priip. Ogni giudice potrebbe, in modo eguale e contrario, assolvere la banca rispettosa di quelle regole oppure condannarla, ritenendo che la distonia normativa non la esima dal più generale obbligo d’informare l’investitore in modo completo e coerente con gli obiettivi di comprensibilità e attendibilità imposti dal sistema Mifid. Per chi scatterà la tagliola? Per il cliente o per la banca? Che rischio.
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