di Luca Gualtieri
In Italia non sembra la priorità. Nei loro consessi formali e informali i banchieri discutono di npl, di crediti d’imposta, di salvataggi, demandando il resto alle elucubrazioni di consulenti e professori. Ma presto un altro tema potrebbe imporsi con forza: la dinsintermediazione, ovvero il rischio di farsi scippare il mestiere. I numeri parlano chiaro: mentre naviga a vista tra gli scogli della Vigilanza e le secche di una bassissima redditività, il settore sarà presto aggredito dalla concorrenza insidiosa di due nuove categorie di soggetti, le fintech e i giganti tecnologici. L’azione congiunta di questi rivali modificherà la catena del valore finora controllata dalle banche, trasformandola di fatto in un modello modulare con la sempre più netta separazione di distribuzione, produzione e infrastrutture. Se gli istituti non reagissero, rischierebbero di essere tagliati fuori dalle attività più redditizie come la distribuzione e la gestione dei clienti e di ritrovarsi in mano solo l’infrastruttura. Risultato? Un’erosione senza precedenti dei profitti. Gli sportelli potrebbero insomma fare la fine delle cabine telefoniche o dei negozi di vinili. L’alternativa? Investimenti e aggregazioni. «In termini di investimenti in tecnologie digitali il sistema bancario italiano costituisce una frazione microscopica del panorama europeo, appena un cinquantesimo. Una frazione che certamente non rispecchia il reale peso delle banche italiane a livello continentale», spiega a MF-Milano Finanza Claudio Torcellan, partner di Oliver Wyman. «Guardando alla situazione banca per banca, si nota poi una differenza sostanziale tra le grandi e le medio-piccole». Se infatti nel 2015 Unicredit investiva 639 milioni in innovazione tecnologica e Intesa Sanpaolo 522 milioni, Mps arrivava appena a 153 milioni, il combinato Banco Popolare e Popolare di Milano (ora Banco Bpm ) a 125 milioni, Ubi a 102 milioni e Bper a 64 milioni. In valore assoluto, insomma, i grandi gruppi spendono circa otto volte più dei medi. Un dato che spiega perché il fattore scala sia decisivo per non uscire dal mercato.
Ma se il volume degli investimenti è ancora basso, la buona notizia è che sul mercato italiano la minaccia della concorrenza non è ancora particolarmente rilevante: il numero e le quote di mercato delle fintech è decisamente inferiore a quello degli altri Paesi europei. Basti pensare che, come mostrano i numeri raccolti da Oliver Wyman, nel primo semestre del 2017 il volume degli investimenti nel settore si è fermato a 24 milioni con solo tre operazioni (Satispay, Growish e Borsa del Credito) contro gli 1,84 miliardi e le 90 operazioni registrate a livello europeo.
Il gap potrebbe giocare a favore delle banche italiane, a patto che mettano subito in cantiere interventi efficaci. Già, ma quali? Un esempio può venire dalla Francia, dove le banche si sono mosse per tempo, stringendo legami molto forti con le fintech. Lo scorso anno, ad esempio, Credit Agricole è entrato nel capitale di Linxo, un aggregatore nato nel 2010. Société Générale ha invece comprato Fiduseo, strategia seguita anche da Bpce con Fidor Bank. Il Credit Mutuel, invece, ha creato direttamente una propria piattaforma con un investimento di 20 milioni. «La Francia mostra due possibili approcci al problema dell’innovazione digitale: aggregare piattaforme indipendenti oppure svilupparle all’interno del gruppo bancario», spiega Torcellan. Uno dei pochi casi in Italia è stato quello di Intesa che ha sviluppato una piattaforma mobile e nel 2016 ha stretto un’alleanza con la startup Marketwall, specializzata nell’erogazione di dati finanziari e di borsa. In generale per molte fintech confluire nell’orbita delle banche potrebbe essere una scelta non solo obbligata ma anche redditizia, perché consentirebbe ai fondatori di valorizzare l’investimento a multipli significativi. Per le banche, invece, una strategia di questo genere richiederà sostenuti volumi di investimento e farà da volano per un ulteriore consolidamento.
I problemi, però, non saranno finiti qui. Dopo aver trovato un’intesa con le fintech, gli istituti dovranno affrontare Google, Apple, Facebook e Amazon. La presenza di questi titani nel settore dei pagamenti e del credito si sta facendo sempre più pervasiva e nel medio periodo la minaccia sarà molto seria. La sensazione è che ancora nessuno abbia una ricetta per affrontare il problema, ma farsi cogliere impreparati non sarà il modo migliore per iniziare la battaglia. (riproduzione ri
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