di Mauro Masi*
di * delegato italiano alla Proprietà intellettuale CONTATTI: mauro.masi@consap.it
Il dibattito politico in Gran Bretagna, appena passate le elezioni politiche nazionali, è tornato su un tema scaturito a seguito dei recenti, ripetuti attacchi terroristici e che riguarda non solo gli inglesi ma tutti noi: «Dobbiamo regolare Internet? O per lo meno quella parte di Internet che sfugge ad ogni verifica» (una problematica che i lettori di questa rubrica seguono da oltre cinque anni).
Esponenti del Partito Conservatore, ma non solo, chiedono a gran voce una norma che permetta alle autorità inquirenti di accedere alle comunicazioni criptate (in particolare le cosiddette end-to-end cioè quelle che possono essere lette solo da coloro cui vengono indirizzate) via social o comunque via rete. Secondo la stampa inglese, il tema sarebbe stato sollevato dal primo ministro May al recente G7 e nei colloqui bilaterali con il presidente Macron. Sempre secondo la stampa, la premier May sarebbe anche a favore di una norma che renda formalmente responsabili le grandi aziende fornitrici dei servizi di rete qualora non fossero in grado (o non volessero) togliere dalle loro piattaforme i contenuti ritenuti illegali o pericolosi. In questo caso il tema è quello, dibattuto sin dalla nascita di Internet, della neutralità degli Internet service provider: una sorta di dogma per le grandi aziende che dominano la rete (le Over the Top) e che ha visto, per esempio, qualche mese fa Apple opporsi duramente all’Fbi negando l’autorizzazione ad aprire la chiave crypto dello smartphone appartenuto a un terrorista assassino. Apple sosteneva che se avesse ceduto agli inquirenti avrebbe rotto il patto con i propri clienti e sarebbe divenuta automaticamente responsabile di cosa passa attraverso i propri prodotti; qualcosa di simile (dicono le Over the Top) al produttore di armi che non può essere co-responsabile dell’uso che ne viene fatto da chi le acquista. L’argomento è chiaramente molto discutibile come è estremamente discutibile che l’accesso a comunicazioni criptate per motivi di indagine e di sicurezza nazionale possa costituire un vulnus alla libertà di espressione. Vedremo come si svilupperà il dibattito in Gran Bretagna, ma questi sono temi su cui, più prima che poi, tutti dovranno fare i conti.
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Secondo il sito britannico specializzato The Register, nei giorni scorsi sarebbe andato a segno il ricatto record realizzato da cybercriminali grazie al virus «ransomware» con vittima un’azienda sudcoreana che avrebbe pagato oltre un milione di dollari in bitcoin per ottenere lo sblocco dei suoi server. L’azienda (Nayana, una compagnia web-hosting che ospita servizi online per diversi siti e aziende) si è vista bloccare i suoi 150 server e ha pagato in tre tranche ottenendo il rilascio graduale dei dati e dei server bloccati. Insomma un deciso upgrading di questo tipo di cybercrimine che non promette niente di buono.
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