Sulla questione se, ai fini del risarcimento, il danno da fermo tecnico debba formare oggetto di specifica dimostrazione oppure sia automaticamente ricollegabile alla mera indisponibilità del veicolo, sussiste un pluriennale contrasto nella giurisprudenza.
Secondo l’orientamento più risalente, il danno in parola, patito dal proprietario di un autoveicolo a causa della impossibilità di utilizzarlo durante il tempo necessario alla sua riparazione, può essere liquidato in via equitativa indipendentemente da una prova specifica in ordine al pregiudizio subito, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso effettivo a cui esso era destinato.
L’autoveicolo, infatti, anche durante la sosta forzata è una fonte di spesa per il proprietario (tenuto a sostenere gli oneri per la tassa di circolazione e il premio di assicurazione), ed è altresì soggetto a un naturale deprezzamento di valore (in tal senso v. già Cass. 23/06/1972, n. 2109; più recentemente, tra le altre, Cass. 14/12/2002, n. 17963; Cass. 13/07/2004, n.12908; Cass. 09/11/2006, n. 23916; Cass. 08/05/2012, n. 6907; Cass. 19/04/2013, n. 9626; Cass. 04/10/2013, n. 22687; Cass. 26 giugno 2015, n. 13215).
Al contrario, secondo un diverso indirizzo, affermatosi in tempi più recenti ed attualmente prevalente, il danno da fermo tecnico di veicolo incidentato deve essere allegato e dimostrato e la relativa prova non può avere ad oggetto la mera indisponibilità del veicolo, ma deve sostanziarsi nella dimostrazione o della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo, ovvero della perdita dell’utilità economica derivante dalla rinuncia forzata ai proventi ricavabili dal suo uso (Cass. 07/02/1996, n. 970; Cass. 19/11/1999, n. 12820; Cass. 17/07/2015, n. 15089; Cass. 14/10/2015, n. 20620).
Tanto premesso, ritiene il collegio di dover dare continuità all’orientamento più recente, ed attualmente prevalente, non apparendo convincenti le ragioni poste a fondamento dell’indirizzo più risalente.
Come si è già rilevato (cfr. la citata Cass. n. 20620 del 2015), quest’ultimo indirizzo, infatti, col ritenere sussistente il danno da fermo tecnico in ragione del fatto stesso che il veicolo non abbia circolato, per un verso attribuisce rilievo alla nozione di danno in re ipsa, la quale è invece estranea al nostro ordinamento che subordina il risarcimento alla sussistenza di un concreto pregiudizio della sfera giuridica patrimoniale o non patrimoniale del richiedente; per altro verso fa applicazione distorta della regola (art. 1226 c.c.) che prevede la liquidazione equitativa del danno, la quale è invece consentita soltanto a condizione che sia obiettivamente impossibile o particolarmente difficile dimostrare, nel suo preciso ammontare, il danno di cui è peraltro provata con certezza la sussistenza.
Nell’individuare un danno automatico, determinato dalla sosta forzata, nelle spese necessariamente sostenute dal proprietario del veicolo incidentato per il pagamento del premio di assicurazione e della tassa di circolazione, l’orientamento tradizionale omette poi di considerare che il bollo di circolazione è ormai una tassa di possesso da pagarsi indipendentemente dall’utilizzo del mezzo (art. 5 d.l. n. 955 del 1982, convertito, con modificazioni, nella l. n.53 del 1983) mentre la conseguenza economica negativa derivante dal pagamento del premio assicurativo (comunque non inutile, atteso che il veicolo potrebbe recare danno a terzi anche durante la sosta tecnica) potrebbe essere in concreto evitata dal danneggiato chiedendo la sospensione dell’efficacia della polizza.
L’indirizzo giurisprudenziale qui contestato, infine, per qualificare il pregiudizio da sosta tecnica quale danno in re ipsa è costretto, non solo a individuare un nesso di consequenzialità necessaria tra il fermo del veicolo e il suo deprezzamento (nesso evidentemente insussistente, atteso che il deprezzamento è una conseguenza del sinistro e non della successiva sosta tecnica, la quale, al contrario, potrebbe far recuperare valore al mezzo), ma anche a negare rilevanza all’uso effettivo a cui il veicolo in riparazione era destinato, omettendo di considerare che, al contrario, l’uso effettivo del veicolo assume rilievo determinante ai fini della esistenza di un danno risarcibile, non potendosi dubitare, sotto questo aspetto, della differenza intercorrente tra il pregiudizio derivante dal fermo di un mezzo utilizzato solo per ragioni di svago e il pregiudizio derivante dal fermo di un mezzo utilizzato per ragioni di lavoro.
In conformità al più recente orientamento, va dunque riaffermato il principio secondo cui il danno derivante dall’indisponibilità di un autoveicolo durante il tempo necessario per la riparazione, deve essere allegato e dimostrato da colui che ne invoca il risarcimento, il quale deve provare la perdita subita dal suo patrimonio in conseguenza della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo (danno emergente) oppure il mancato guadagno derivante dalla rinuncia forzata ai proventi che avrebbe conseguito con l’uso del veicolo (lucro cessante).
Corretta, pertanto, appare la decisione impugnata nella parte in cui ha rigettato il capo di domanda relativo al danno da fermo tecnico, sul rilievo che l’attore, cui spettava il relativo onere, non avesse dimostrato in alcun modo tale voce di danno e che la stessa non fosse suscettibile di liquidazione equitativa.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, 31 maggio 2017 n. 13718