di Roberto Sommella
Sorpresa, anche la più antica democrazia del mondo può diventare ingovernabile con esiti imprevisti per economia, società e partecipazione o meno all’Unione Europea. Il risultato delle elezioni britanniche, che ha visto prevalere Theresa May su Jeremy Corbyn, senza che però i conservatori possano contare su una maggioranza in Parlamento sui laburisti, rischia di mandare in confusione l’establishment, il popolo e con essi borsa e sterlina.
Il giorno della verità si è trasformato in un caos day che sarà difficile da districare. La premier conservatrice, arrivata alle urne da una posizione di forza di partenza, ne esce invece indebolita e con lei un intero Paese, che ora comincia a interrogarsi su cosa sarà della Brexit, della lotta al terrorismo e del futuro dei propri figli.
Anche la vecchia Inghilterra è finita così nel vortice dell’incertezza che sembra avvolgere tutto il mondo occidentale, Stati Uniti compresi (l’alleanza con l’America isolazionista di Trump ora forse è più debole). Da quando ha preso il posto di David Cameron, il padre di questo pasticcio in salsa inglese cominciato con il non dovuto referendum sulla partecipazione all’Unione Europea, la premier conservatrice ha sempre affermato che non avrebbe indetto elezioni anticipate. E invece i britannici si sono ritrovati ai seggi come un anno fa, quando decretarono l’uscita del Regno dalla Ue e i risultati oggi sono ancora più contrastanti. Con l’aggravante che i due attentati a Manchester e Londra hanno fatto saltare tutti gli schemi.
All’incertezza sulla Brexit dopo l’avvio delle trattative con Bruxelles il 29 marzo scorso, si aggiunge ora quella sul futuro stesso della Gran Bretagna, spaccata a metà come la mela dei Beatles: chiudersi a riccio con leggi speciali per rispondere al terrorismo islamico o usare un linguaggio di pace come durante il concerto a Manchester post strage? Sono domande che scuotono tutto l’elettorato e che si sono riverberate nelle urne.
A questo punto diventa difficile anche fare previsioni sull’esito della Brexit, per cui ci sono comunque alcuni dati di fatto da considerare, a meno che il Paese non faccia una clamorosa marcia indietro vista la debolezza del governo uscito dalle urne.
Innanzitutto, il vero braccio di ferro sarà sulla finanza. A Bruxelles si sta studiando una revisione tutta a favore degli europei degli accordi sulle stanze di compensazione finanziaria dei prodotti venduti sui mercati, in pratica dove si fanno i calcoli del dare-avere a fine giornata. Ebbene, la Commissione Europea vorrebbe riportare nello spazio comunitario un rigido controllo appunto dell’euroclearing market, predisponendo una centralizzazione della vigilanza laddove fossero coinvolte «funzioni critiche per il mercato dei capitali» e la stabilità del mercato unico. La proposta lascia presagire che la battaglia tra Londra e Bruxelles sull’uscita degli inglesi dalla Ue e sui suoi effetti finanziari sarà durissima, tra minacce, dossier e costi del divorzio, stimati ora addirittura intorno a 100 miliardi di euro a carico degli inglesi tra contributi e oneri di vario genere dovuti alla Ue.
Il problema delle stanze di compensazione è in effetti nevralgico per la borsa di Londra. I tre quarti dei derivati denominati in euro nel mondo vengono scambiati nella City, per un controvalore nozionale di 850 miliardi al giorno. Una cifra immensa che permette grandissimi guadagni sulle commissioni: gli inglesi non ci rinunceranno mai, a costo di arrivare alle maniere forti o tornare sui propri passi. Ma ora è tutto più complicato per la May.
La prima candidata a scippare questa gallina dalle uova d’oro alla London Clearing House (Lch, appunto la società inglese che fa queste contrattazioni) potrebbe essere la borsa di Francoforte, ma anche quella di Milano, se davvero i negoziatori europei andranno avanti nel loro intento di isolare finanziariamente Londra.Tra l’altro Milano avrebbe dalla sua il fatto di essere comunque controllata dal London Stock Exchange, che possiede anche Lch. Il mercato delle compensazioni finanziarie è però da tempo nel mirino dei francesi, che anch’essi vorrebbero trasferirlo nell’Eurozona.
Tutto dovrà essere definito entro il 29 marzo del 2019 e dopo queste elezioni che hanno peggiorato e reso incerto il quadro politico: chi a Westminster aiuterà i Tories ad andare avanti sul cammino del referendum di un anno fa?
I negoziati dureranno sulla carta poco meno di due anni, un tempo che appare lungo ma che potrebbe rivelarsi invece estremamente esiguo, vista la delicatezza della materia e l’incertezza del quadro politico.
Un diplomatico del vecchio gabinetto, Gus O’Donnel, prima del referendum del 23 giugno 2016 ammonì: «La Groenlandia, popolazione di poco inferiore a Croydon, città di circa 12 mila abitanti nella zona sud di Londra, ha un problema col pesce e per un problema del genere ci sono voluti tre anni. Noi abbiamo molteplici problemi, è altamente improbabile che si possa risolvere tutto in due anni». God save the Brexit.
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