Il pregiudizio da rottura o lesione del rapporto parentale, integrante danno non patrimoniale iure proprio del congiunto della vittima, si concreta nello sconvolgimento dell’esistenza rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita conseguenti al decesso del congiunto, rimanendo invece esclusa la configurabilità di tale danno quando dall’evento conseguano meri disagi, fastidi, disappunti, ansie, ovvero, in sintesi, la perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità della vita.
Si tratta di un danno che non può considerarsi esistente in re ipsa -cioè a dire per il solo fatto del vincolo parentale venuto meno- ma richiede, secondo il principio della domanda e la regola generale dell’art.2697 cod. civ., l’allegazione -e la asseverazione-, precisa e circostanziata, dello sconvolgimento di vita patito e delle sue specifiche e concrete estrinsecazioni, non potendo invero risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico
Il ristoro del danno da lesione del rapporto parentale è imprescindibilmente rimesso a una valutazione equitativa, secondo criteri – la cui scelta è affidata alla prudente discrezionalità del giudice – che devono essere comunque idonei a consentire la cd. personalizzazione del danno, una liquidazione adeguata e proporzionata che, muovendo da una uniformità pecuniaria di base, riesca ad essere adeguata all’effettiva incidenza della menomazione subita dal danneggiato nel caso concreto: per il danno da perdita da rapporto parentale, l’apprezzamento deve concernere, quali fatti specifici cui parametrare la misura economica dello sconvolgimento di vita, la gravità del fatto, l’entità del dolore patito, le condizioni soggettive della persona, il turbamento dello stato d’animo, l’età della vittima e dei congiunti all’epoca del fatto, il grado di sensibilità dei danneggiati superstiti, la situazione di convivenza o meno con il deceduto.
Anche per questa tipologia di danno non patrimoniale, valida risposta alla difficoltà di dare concretezza alla nozione di liquidazione equitativa come adeguatezza e proporzione al caso concreto e, al contempo, trattamento uguale di casi uguali, stata ravvisata nell’adozione del sistema delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano – aventi, per il costante utilizzo nella metodologia degli operatori e nella stratificazione giurisprudenziale, una vera e propria vocazione nazionale-, quale strumento recante i parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto dell’equità valutativa, e quindi a consentire l’attuazione della clausola generale dell’art. 1226 cod. civ., ed evitare quanto meno attenuare- il pericolo di ingiustificate disparità di trattamento profilabili in termini di violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione.
Con la doverosa precisazione che il giudice, nell’effettuare la necessaria personalizzazione del danno non patrimoniale in base alle circostanze del caso concreto, può anche superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalle tabelle del Tribunale di Milano, purché la specifica vicenda oggetto di apprezzamento si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui la tabella non possa aver già tenuto conto, in quanto elaborata in astratto in base all’oscillazione ipotizzabile in ragione delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l’id quod plerumque accidit, dando conto in motivazione di tali circostanze e di come esse siano state considerate.
Se, dunque, i parametri delle Tabelle di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, la mancata adozione da parte del giudice di merito delle stesse in favore di altro criterio -ivi compresa l’adozione di tabelle in precedenza adottate presso l’ufficio giudiziario di appartenenza- integra violazione di norma di diritto censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 3 cod. proc. civ., ricorrendo determinate condizioni -e cioè soltanto se la questione sia stata già posta nel giudizio di merito e la parte interessata abbia depositato in atti, al più tardi in grado di appello, copia delle tabelle milanesi-.
Per converso, la liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale è sindacabile in sede di legittimità sub specie del vizio ex art. 360, primo comma n. 5, cod. proc. civ. allorquando l’ammontare quantificato si prospetti palesemente non congruo rispetto al caso concreto, in quanto irragionevole e sproporzionato per difetto o per eccesso rispetto a quello previsto dalle tabelle milanesi, oppure quando il giudice di merito non espliciti i criteri assunti a base del procedimento valutativo adoperato oppure ancora quando, nell’individuare la somma concretamente attribuibile nel range tra il minimo e il massimo stabiliti in via astratta e generale dalle tabelle, non espliciti i parametri di giudizio e le circostanze che abbia considerato per addivenire alla quantificazione.
Invero, la pronuncia citata, nel quantificare il ristoro per il danno non patrimoniale sofferto dagli istanti per la perdita della congiunta -più precisamente, al fine di verificare la congruità della somma a tale titolo versata dalla compagnia assicuratrice responsabile civile- si è riferita alle tabelle di Milano -e ciò, pertanto, esclude la pur prospettata violazione di legge- e, nell’individuare il concreto importo risarcitorio nella forbice dei valori, minimo e massimo, stabiliti dalle richiamate tabelle, si è orientata per l’attribuzione di una somma collocata, per ciascuno dei superstiti danneggiati, nella fascia medio – alta del liquidabile, dando contezza delle circostanze fattuali considerate -l’intensità del dolore, la subitaneità dell’evento morte- e delle allegazioni meramente generiche delle parti danneggiate sul concreto atteggiarsi del rapporto tra i familiari prima del decesso della vittima e dopo tale luttuoso evento.
Nelle obbligazioni da risarcimento danni per equivalente, la prestazione ha a oggetto il valore economico del bene illecitamente distrutto, leso o non conseguito, e viene adempiuta con la corresponsione di una somma di denaro in funzione succedanea rispetto all’utilità originaria, cui deve essere -appunto- equivalente in termini di potere di acquisto.
La difficoltà nell’operazione sorge per l’ineludibile scarto temporale esistente tra l’epoca di verificazione dell’evento lesivo e quella della sua liquidazione: nasce qui la distinzione tra la aestimatio, cioè la determinazione dell’astratto valore del bene leso, e la taxatio, ovvero la traduzione, in espressione pecuniaria, di siffatto valore.
Si tratta di un canone di valenza generale, destinato ad operare -e qui si percepisce la fallacia del ragionamento del ricorrente- in ogni ipotesi di liquidazione del danno, nozione da intendersi, cioè, in una accezione estesa e comprensiva non soltanto della determinazione dell’importo risarcitorio in via convenzionale -ad esempio, per un accordo transattivo tra le parti- o giudiziale -all’esito di una controversia- ma anche del pagamento spontaneo della somma ad opera della parte obbligata: diversamente opinando, in quest’ultimo caso, il danneggiato, ricevuta una somma idonea a compensare il pregiudizio sofferto, ben potrebbe in un momento successivo -ed anche a distanza notevole di tempo- invocare un maggior ristoro, lucrando su più favorevoli criteri di liquidazione nelle more affermatisi in via normativa o pretoria.
Nel risarcimento danni per equivalente, la stima e la determinazione del pregiudizio da ristorare -ovvero del valore economico del bene illecitamente leso, compensato con la corresponsione di una somma di denaro in funzione succedanea rispetto alla perduta utilità- vanno operate alla stregua dei criteri praticati al momento della liquidazione in qualsivoglia maniera compiuta, cioè secondo i parametri vigenti alla data della pattuizione convenzionale stipulata tra la parti, del pagamento spontaneamente effettuato dal soggetto obbligato o della pronuncia -anche non definitiva- resa sulla domanda risarcitoria formulata in sede giurisdizionale o arbitrale, restando preclusa, una volta quantificato il danno con una di tali modalità, la applicazione di criteri di liquidazione -se del caso più favorevoli al danneggiato- elaborati in epoca successiva.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, 28 febbraio 2017 n. 5013