di Alessandro Rosina e Sergio Sorgi
Senza evocare profezie su conflitti tra generazioni, fare welfare in carenza di risorse richiede alcune scelte. La prima possibilità è quella di restituire ai singoli le proprie responsabilità, arretrando le protezioni sociali offerte nel secolo del progresso. In questa direzione sembra muoversi il Giappone, dove si sta immaginando la fine delle pensioni di vecchiaia e si chiede ai giovani di concentrare i propri studi universitari su scienza, tecnologia e matematica, ma anche l’Inghilterra, che consente ai pensionandi di ritirare i propri contributi previdenziali per farne l’uso che ritengono più utile. Che cosa accadrà se di questi contributi viene fatto un cattivo uso, o per dirla più semplicemente, se ci saranno molte persone che sopravvivranno al proprio reddito?
La semplice diminuzione delle protezioni pubbliche che scarica le incertezze sui cittadini non sembra un modello convincente, dato che la logica conseguenza è quella di delegare le politiche sociali al mercato privato, che non ha finora dimostrato di essere solidamente orientato all’equità. Una seconda strada invita invece a realizzare antidoti, che si situano in due categorie principali non disgiunte: i welfare generativi e i welfare di comunità. Il welfare generativo consiste nella creazione di circolarità nell’assistenza, ossia nel chiedere a chi ottiene benefici di restituire in qualche modo quanto ricevuto mettendo a disposizione le proprie energie per la comunità. In questa prospettiva, l’utente dei servizi diviene anch’esso produttore di benessere, apportando tempo, risorse, energie, competenze ed esperienze utili per altri.
Un’altra forma interessante è rappresentata dalla cosiddetta premialità, un modo di incentivare buone pratiche nei cittadini per via razionale o psicologica. Ne sono esempio le deduzioni o detrazioni fiscali, che riconoscono la valenza di alcuni comportamenti e li incentivano o supportano. Diverso è il tema dell’influenza positiva attuata per via comportamentale. Diversi studi evidenziano che si possono incentivare comportamenti virtuosi partendo dalle predisposizioni psicologiche degli utenti. Tra obbligatorietà e laissez-faire vi sono da qualche anno in corso sistemi di spinta gentile (nudge) che, senza obbligare i cittadini ad assumere comportamenti virtuosi ne sostengono gli sforzi: sono meccanismi che adoperano l’inerzia decisionale dei cittadini a loro favore o attribuendo rating di cittadino virtuoso e vantaggi a chi mette in atto comportamenti utili alla collettività. (…)
Il modo più naturale per ampliare i supporti in assenza di risorse consiste tuttavia nel welfare di comunità, un’alleanza forte tra componenti della società che si basa sul concetto di network. I welfare in rete aggregano le componenti della società interessate a costruire benessere nei propri utenti. Tipicamente ne fanno parte le pubbliche amministrazioni, il terzo settore, le imprese (storicamente coinvolte nel benessere dei propri lavoratori dai tempi di Olivetti, Enrico Mattei, Pirelli), la famiglia, le associazioni e il mercato finanziario, assicurativo e previdenziale. Ognuno di questi soggetti può interpretare la propria partecipazione al network in due dimensioni: societaria e comunitaria. Il welfare societario è un’alleanza tattica, che massimizza i benefici per ogni soggetto istituzionale che partecipa.
Il welfare di comunità, strategico, mette al centro dei propri risultati l’utente, sapendo che questo orientamento alla persona darà benessere, per riflesso, all’intera società e dunque anche alle componenti della rete. Il welfare di comunità è solidaristico, mutualistico e sottintende il valore che deriva dal mettere in comune le responsabilità del benessere. Se ci sono pochi figli, un welfare promozionale e prospettico aiuterà le coppie a poter fare scelte desiderate di procreazione, facilitandone le decisioni e la gestione familiare in un contesto favorevole. Se il mercato del lavoro sottoutilizza l’esperienza dei senior, un welfare attento metterà in atto provvedimenti atti a facilitare la permanenza dei senior nel mondo del lavoro, mediante forme di part-time agevolato o rivedendo il rapporto tra reddito e produttività in età avanzate. Se, come accade, il lavoro femminile è poco agevolato e mal pagato, si interverrà con politiche di conciliazione che, per esempio, rendano asincroni gli orari di inizio scuola, inizio del lavoro e fruizione di servizi pubblici. Insomma, serve un nuovo welfare che non arretri, non chiuso in difesa, ma in grado di porsi in felice sintonia con le trasformazioni in corso.
* brano tratto dal saggio Il Futuro
che (non) c’è, Bocconi Editore
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