In certe zone, per esempio, non si può proprio ricostruire niente
di Pietro Vernizzi

«Confermo l’impegno del governo: ricostruiremo tutto, compresi i nuovi danni prodotti da queste ultime scosse. I cittadini sappiano che non sono soli e avranno lo Stato a sostegno della ricostruzione intera per quanto riguarda le case, gli edifici pubblici e il patrimonio artistico«. A dichiararlo è stato Vasco Errani, commissario alla ricostruzione post-terremoto ed ex presidente della Regione Emilia-Romagna, in visita alle zone colpite dai nuovi terremoti. Un impegno politico chiaro, la cui fattibilità, dal punto di vista tecnico, richiede però analisi molto dettagliate. Secondo Gianpaolo Rosati, direttore del dipartimento di Ingegneria civile e ambientale del Politecnico di Milano, «quando dalle analisi escono dei numeri in base a cui non si può costruire, bisogna avere il coraggio di scegliere un altro luogo. È un coraggio difficile da gestire politicamente perché non porta voti. Si inventano quindi degli escamotage, e questo è pericolosissimo perché poi se ne pagano le conseguenze in situazioni critiche quali terremoti e inondazioni».

Domanda. Professor Rosati, si può costruire in un’area dove la terra continua a tremare?

Risposta. Si ricorre a tecniche conosciute, ormai ampiamente collaudate, come per esempio l’isolamento alla base. Ma anche una struttura ordinaria in acciaio, legno, calcestruzzo armato o muratura, se correttamente progettata ed eseguita, resiste al sisma.

D. Ricostruire tutto dov’era prima è la scelta più razionale o sarebbe meglio farlo altrove?

R. Se non si hanno a disposizione delle analisi riguardanti la sismicità locale, definite con il termine tecnico di «micro zonazione sismica», non si può fare questo tipo di promesse. Tutto deve passare attraverso un’analisi dettagliata del territorio, per poi valutare il piano di fattibilità. Tutte le altre sono promesse che non hanno alcun significato. Bisogna essere rigorosi e coraggiosi: si studia la zona e quindi si ottiene la risposta. Questa è l’unica via, se vogliamo evitare altre brutte disavventure.

D. Quali brutte disavventure?

R. Il problema è fondamentalmente di etica e deontologia. Ci sono le conoscenze tecniche e la legislazione nazionale ed europea per fare il meglio per i cittadini. Eppure spesso si cercano delle vie alternative che, apparentemente, permettono di risparmiare, ma che non forniscono le garanzie di sicurezza necessaria. Quando dalle analisi escono dei numeri, in base a cui non si può costruire in un dato punto, bisogna avere il coraggio di scegliere un altro luogo.

D. Perché farlo è così difficile?

R. Perché è un coraggio difficile da gestire politicamente, in quanto significa ammettere: «Abbiamo sbagliato e dobbiamo fare un altro tipo di scelta». E’ un problema di coscienza. Non porta voti dichiarare: «L’analisi dice che non possiamo edificare in questa zona, dobbiamo trovare un altro luogo». Il vero problema è questo: quando da un’analisi tecnico-scientifica esce un risultato che non ci piace, psicologicamente siamo portati a rifiutarlo.

D. Perché?

R. Perché è un atteggiamento umano. Un determinato terreno non è sufficientemente sicuro per costruire, ma siccome quell’area è mia, sono portato a rifiutare la valutazione negativa. Ciò è pericolosissimo, perché porta a forzare la situazione con esiti che possono essere disastrosi.

D. È un fatto che è già avvenuto anche nel caso di terremoti precedenti?

R. Sì, purtroppo è già avvenuto. Più che a singoli casi mi riferisco però a una psicologia diffusa, che a volte condiziona gli stessi criteri progettuali utilizzati per molte infrastrutture. Nella mia esperienza personale, quando sono chiamato a valutare il progetto strutturale di una infrastruttura, un ospedale ad esempio, spesso trovo scelte progettuali strane che sono giustificate proprio in questi termini.

D. E sarebbero?

R. Nascono dal non voler riconoscere che, nella maggior parte dei casi, non si deve fare una scelta progettuale di minimo costo ma di sicurezza e funzionalità per tutta la vita dell’opera. Si inventano quindi degli escamotage, e questo è pericolosissimo perché poi se ne pagano le conseguenze in situazioni critiche quali terremoti e inondazioni. E il costo è anche in termini di vite umane.

D. Se lei avesse potere decisionale, come interverrebbe nelle aree terremotate?

R. Farei applicare strettamente le norme che ci sono attraverso dei controlli severi su progetti, materiali ed elementi strutturali in fase esecutiva. Spesso però gli stessi controlli sono truccati. Per esempio, lei trova i documenti del collaudo, ma dal controllo sul cantiere non risulta corrispondenza effettiva: magari l’opera è stata realizzata senza il regolare controllo della direzione lavori sui materiali e sui sistemi costruttivi e relative visite di collaudo. Le norme sui collaudi però ci sono e, seguendole, la sicurezza dell’edificio sarebbe garantita: il vero problema è il fattore umano.

D. Lei ha detto che spesso i controlli sono irregolari. Da parte di chi?

R. La catena di tecnici composta da: progettista, esecutore dei lavori, direttore dei lavori e collaudatore che, attraverso l’applicazione delle norme, dovrebbe garantire la qualità dell’opera in teoria funziona perfettamente, ma in pratica non è così. Nel momento in cui un anello della catena si interrompe, l’opera non è più affidabile e quindi diventa insicura.

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