di Francesco Barresi
Lo psichiatra commette omicidio colposo se non vigila severamente sui pazienti ad alto rischio di suicidio. Lo chiarisce la Corte di cassazione, nella sentenza 33609/2016 dell’1 agosto, che ha respinto il ricorso di un medico psichiatra condannato per il suicidio di una paziente, affetta da psicosi maniaco-depressiva, «una malattia caratterizzata da un alto rischio di suicidio». La paziente, dopo aver tentato il suicidio ben due volte, si è allontanata dalla stanza della clinica dove era in cura, gettandosi da un’impalcatura esterna dell’edificio, per porre fine alla sua vita. I giudici di piazza Cavour hanno accolto l’interpretazione della Corte d’appello sull’atto d’accusa, secondo cui «si rendeva assolutamente necessario procedere, oltre a tutti gli interventi di tipo farmacologico – si legge nella sentenza – a una stretta sorveglianza, intesa come assistenza della paziente 24 ore su 24» e che purtroppo tale misura «non fu in nessun caso e in nessun momento adottato nei confronti della paziente che risultò pienamente libera di muoversi per tutto l’edificio, senza alcuna sorveglianza». Da qui il richiamo dei porporati al principio di diritto secondo cui «il medico psichiatra deve ritenersi titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche là dove quest’ultimo non sia sottoposto al ricovero coatto, con la conseguenza che lo stesso, quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidarie, è tenuto ad apprestare specifiche cautele».
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