di Marino Longoni
Le casse di previdenza dei liberi professionisti godono, apparentemente, di una salute discreta. I dati del 2015, illustrati nei giorni scorsi dal rapporto del centro studi di Itinerari previdenziali guidato da Alberto Brambilla, mostrano che nel 2015 il patrimonio complessivo delle casse è cresciuto del 6,77% sfiorando quota 70 miliardi. Sale anche la raccolta contributiva, arrivata a 9,350 miliardi e i numero degli iscritti, seppure di poco (+8.275). Fin qui tutto bene. Ma l’importo delle pensioni erogate, arrivato a 5,792 miliardi, cresce più velocemente (+5,2%, contro il +2,8 dei contributi versati) e il rapporto attivi/pensionati scende dal 4,26 al 4,14: siccome molte di queste casse hanno pochi anni di vita e quindi pochissimi pensionati, la tendenza, se dovesse proseguire, diventerebbe preoccupante nel momento in cui andranno in pensione un numero sempre crescente di professionisti.
Ma il problema della casse di previdenza è che da molti anni il loro patrimonio e le loro entrate contributive fanno gola a chi, nel governo, deve preoccuparsi della ricerca di sempre nuove e sempre più difficili da trovare, risorse finanziarie. Più volte i governi degli ultimi anni hanno ceduto alla tentazione di mettere le mani sulle casse dei professionisti per risolvere problemi del bilancio pubblico: l’ultima manovra economica di Tremonti aveva portato la tassazione delle rendite finanziarie dal 12,5 al 20%. Nel 2014 sono salite al 26%, dando a queste casse il primato mondiale del carico fiscale per gli enti autonomi di previdenza. Poi lo stesso Tremonti chiese alle casse un contributo per un fondo dedicato all’housing sociale: le casse misero un chip di 200 milioni che finirono a cassa depositi e prestiti e lì si fermarono. Come se non bastasse una norma del decreto Salva Italia del 2013 ha imposto alla gestione amministrativa delle stesse casse risparmi obbligatori, trasferendo all’erario una parte dei fondi così recuperati.
Pochi mesi fa Renzi chiese ancora un contributo volontario (si parlò di 500 milioni) per il fondo Atlante: dopo una prima risposta positiva, le casse si ritirarono in buon ordine quando si resero conto che si trattava di un investimento rischioso, dal rendimento praticamente nullo e che anche la contropartita politica (detassazione) restava molto incerta. Insomma, cambiano i governi, ma la tentazione di usare i patrimoni delle casse come un bancomat continua a serpeggiare nei corridoi del ministero dell’Economia. Al contrario non si è mai aperta in modo serio una discussione sulla possibilità di utilizzare i 4 miliardi annui di entrate contributive non destinate al pagamento delle pensioni per dare una spinta positiva al ciclo economico.
Ora che i rendimenti obbligazionari tendono allo zero e gli investimenti azionari sono sempre più rischiosi, potrebbe essere interesse di tutti studiare il modo per convogliare buona parte di questi investimenti nell’economia reale, contribuendo così a finanziare piccole e medie imprese, professionisti, lavoratori autonomi. Cioè quelli che producono pil, non pezzi di carta. Stimolare la crescita reale del Paese è nell’interesse di tutti, anche delle stesse casse che, altrimenti, rischiano di trovarsi tra qualche anno con un rapporto attivi/pensionati difficili da sostenere (se non con pensioni da fame). Se i contributi dei professionisti fossero impiegati a questo fine (magari mediante incentivazioni fiscali) invece che nell’acquisto di prodotti finanziari sui mercati finanziari internazionali, probabilmente ci guadagnerebbero tutti. (riproduzione riservata)
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