di Gianfranco Morra
Natalità, previsioni nere. Per la prima volta i decessi, 648 mila, hanno superato le nascite, 486 mila. Un trend che iniziò nel 1964, quando il tasso di fecondità (numero di nati per donne feconde) era 2,8 e il tasso di natalità (numero nati ogni mille abitanti) era di 19,7%. Oggi sono, rispettivamente, 1,3 e 8%. Il calo non si è mai arrestato. Ciò significa che siamo lontanissimi dalle 750 mila nascite annue richiesto per mantenere la stessa popolazione. La popolazione italiana diminuisce nonostante l’arrivo di tanti migranti. Le cui donne fanno più figli, ma anche loro sempre meno e non riescono a compensare il calo dei nati da donne italiane. È sempre difficile dire cosa accadrà nel futuro, ma si prevede che nel 2060 la popolazione scenderà da 60 milioni a 40.
Non riguarda noi soltanto, ma tutto l’Occidente. Insieme con la denatalità cala la produzione, va in tilt il sistema pensionistico, si affievolisce l’identità nazionale. Tutti i paesi europei ne hanno capito le cause: uno stipendio in famiglia non è sufficiente e le donne debbono immettersi nel lavoro, che rende difficile la maternità e l’allevamento dei figli; la maggiore libertà che, giustamente, hanno conseguito, apre loro molti campi di attività (sociale, politica, ludica), che rende inaccettabile ridurre il proprio ruolo a quello di madre; una cultura edonista le stimola in questa direzione.
E tutti cercano una via d’uscita. Il modo ritenuto più utile è quello di aiutare economicamente le madri con sussidi, congedi parentali, part-time lavorativi, asili nido, riduzione delle tasse in rapporto al numero dei figli, sconti tariffari. Solo per le famiglie «povere» (da noi con reddito inferiore ai 25 mila euro). Tutte cose valide, eppure, anche nei paesi nordici, dove le previdenze sono maggiori e l’assistenza più efficiente, il calo delle nascite continua.
Nessuno vuole tornare alla famiglia paternalista del passato, della donna di Lutero, KKK (Küche, Kirche, Kinder), «tutta casa, tutta chiesa, tutta letto» (Franca Rame). Resta tuttavia il dato di fatto che il vecchio tipo di famiglia, per quei tempi funzionava, lo abbiamo cancellato ma uno nuovo non è ancora nato. Viviamo nell’interregno della famiglia, se non proprio nell’epoca postfamiliare. Aveva dunque ragione Francis Fukuyama che l’immissione della donna nel lavoro produce la fine dell’ordine dentro la «grande distruzione» (The Great Disruption, Baldini & Castoldi 2001) della postmodernità? Ma come credere a colui che profetizzò la «fine della storia» (The End of History and the Last Man, Rizzoli 1992), che invece continua?
Uno dei più noti demografi italiani, Gian Carlo Blangiardo (Univ. Milano-Bicocca) ha lanciato un invito: almeno tre figli per ogni donna. Ma sarà ascoltato?
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