Riportiamo di seguito l’interessantissimo articolo pubblicato dallo Studio Cataldi sulla resposabilità professionale dell’avvocato, redatto da Laura Bazzan.

Nell’esecuzione del contratto d’opera professionale, l’avvocato è tenuto a mantenere una diligenza commisurata al tipo di prestazione richiestagli che comporta, in ogni caso, secondo quanto precisato dalla Cassazione con sentenza n. 6782/2015, il dovere di assolvere anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, cui l’avvocato deve ottemperare rappresentando al proprio assistito “tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi” e sconsigliandolo “dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole” (conf. Cass. 14597/2004).

Pur riconoscendo che l’obbligo di informazione imposto al professionista è finalizzato al conseguimento di un consenso informato da parte del cliente, la giurisprudenza di legittimità ha al contempo ritenuto quest’ultimo normalmente non in grado di valutare regole e tempi processuali; di conseguenza, come chiarito con sentenza n. 10289/2015, la responsabilità dell’avvocato sussiste anche in caso di strategia condivisa con il proprio assistito o quando sia lo stesso cliente a sollecitare il ricorso a determinati mezzi difensivi “essendo compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica nella prestazione dell’attività professionale” (conf. Cass. 20869/2004).

Poiché l’adempimento del mandato comporta lo svolgimento di tutte le attività utili per la tutela dell’assistito, la Suprema Corte con sentenza n. 25963/2015 ha stabilito che configura un grave inadempimento, con conseguente risoluzione del contratto e condanna al risarcimento del danno, la condotta dell’avvocato che ometta di indicare le prove indispensabili per l’accoglimento della domanda, salvo che questi “dimostri di non aver potuto adempiere per fatto a lui non imputabile o di aver svolto tutte le attività che, nel caso di specie, potevano essergli ragionevolmente richieste” (conf. Cass. 8312/2010).

Il diritto al risarcimento del danno, invero, non insorge automaticamente quale conseguenza di qualsivoglia inadempimento del professionista dovendosi valutare, sulla base di un giudizio probabilistico, se, in assenza dell’errore commesso dall’avvocato, l’esito negativo per il cliente si sarebbe ugualmente prodotto (cfr. Cass. 297/2015).

Sulla scorta di questo consolidato orientamento, con sentenza n. 1984/2016 la Cassazione ha ribadito che “la responsabilità dell’avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone” (conf. Cass. 2638/2013).

Assume rilievo dirimente, pertanto, il “difetto allegatorio e dimostrativo circa il danno risarcibile (legato all’anzidetto giudizio prognostico), il quale, per l’appunto, non può essere confuso con l’inadempimento stesso, ma deve essere provato dall’istante quale concreto pregiudizio subito in conseguenza dell’illecito contrattuale” (Cass. 10698/2016).

L’obbligazione assunta dal professionista, infatti, rimane qualificabile quale obbligazione di mezzi e non già di risultato, di talché, secondo quanto confermato anche con sentenza n. 2954/2016, il grado di diligenza richiesto al professionista ai sensi dell’art. 1176 c.c. è quello medio “a meno che la prestazione professionale da eseguire in concreto involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà: in tal caso la responsabilità del professionista è attenuata, configurandosi, secondo l’espresso disposto dell’art. 2236 c.c., solo nel caso di dolo o colpa grave, con conseguente elusione nell’ipotesi in cui nella sua condotta si riscontrino soltanto gli estremi della colpa lieve” (conf. Cass. 8470/1995).

Del medesimo avviso la giurisprudenza più recente che ritiene configurabile lo stesso dovere di informativa quale obbligazione di mezzi, diligentemente finalizzata al conseguimento di un risultato utile per il cliente ma non anche certa garanzia del suo effettivo conseguimento, essendo vero “che incombe sul professionista l’onere di fornire la prova della condotta mantenuta, e che al riguardo non è sufficiente il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all’esercizio dello ius postulandi, trattandosi di elemento che non è idoneo a dimostrare l’assolvimento del dovere di informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull’opportunità o meno di iniziare un processo o intervenire in giudizio” ma essendo, altresì, vero “che l’attività di persuasione del cliente al compimento o non di un atto, ulteriore rispetto all’assolvimento dell’obbligo informativo, è concretamente inesigibile, oltre che contrastante con il principio secondo cui l’obbligazione informativa dell’avvocato è un obbligazione di mezzi e non di risultato” (Cass. 7708/2016).

Fonte: La responsabilità professionale dell’avvocato. Un anno di pronunce della Cassazione
(www.StudioCataldi.it)

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Fonte: La responsabilità professionale dell’avvocato. Un anno di pronunce della Cassazione
(www.StudioCataldi.it)