di Roberto Sommella
Si fa presto a dire che la Brexit non conviene alla City. È la prima piazza finanziaria del mondo e di certo non vuole perdere un mercato di 500 milioni di consumatori europei. Ma la posta in gioco il prossimo 23 giugno è politica più che economica, come è vero che la pancia dell’inglese medio, che legge i tabloid pro divorzio dall’Unione mentre se ne torna in treno a casa, non vive a Londra ma in tutto il resto del Paese. Stiamo scoprendo oggi, mentre la Ue si dissolve in rivoli nazionalisti, una cosa nota da sempre. La Gran Bretagna, anche coloro che sono europeisti convinti, teme in fondo che il progetto Europa possa alla fine deflagrare, schiacciato da veti incrociati, mancanza di politica e di un disegno comune. Quindi fa i suoi conti, come temo faranno anche in altri Paesi (il caso austriaco insegna).
Anche se la consultazione del terzo giorno d’estate dovesse quindi certificare un sì all’Unione, gli inglesi continueranno a non sentirsi parte di un progetto comune e il loro voto shock rappresenterà comunque un precedente. Con il loro isolazionismo, sono i padri storici dell’euroscetticismo, ascoltati e invidiati in tutto il mondo. Potrebbero fare proseliti. Ecco perché la Commissione Ue ha deciso di concedere flessibilità ai conti di Italia, Spagna e Portogallo. In gioco c’è la fusione a freddo dell’euro e non è il caso di intestardirsi sul rigore dei conti. Dovesse collassare la Ue, una crisi avrebbe il carattere di un’epidemia sistemica molto peggiore della fine dello Sme, il vecchio sistema monetario. Lo ha rivelato a chi scrive il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, durante la sua recente visita a Roma: in caso di Brexit, a divorziare dalla bandiera stellata sarebbero in tanti. In gioco non c’è quindi solo un’appartenenza, per la verità sempre scettica e interessata, di un Paese vincitore della seconda guerra mondiale al progetto comunitario, ma anche il progetto stesso e le alleanze tra tutti gli altri storici partner che nascono proprio dagli accordi successivi al 1945.
Ma perché gli inglesi ce l’hanno tanto con l’Europa? Qui la spiegazione è tutta finanziaria. I britannici non hanno mai mandato giù la volontà unilaterale della Bce di imporre la localizzazione nell’area euro delle stanze di compensazione (il dare e avere nelle transazioni finanziarie) in modo da avere interamente sotto controllo questo elemento cruciale. A suo tempo, per altri motivi, Margaret Thatcher disse «rivoglio indietro il mio denaro». Oggi uno slogan del genere non è più possibile, perché il denaro inglese cresce grazie a quello degli altri. Peccato che questo assioma valga solo per chi può investire o ha una rendita da proteggere. Chi è disoccupato, sottopagato, operaio o esponente arrabbiato della ex middle class, se ne infischia dei mercati finanziari e delle stanze di compensazione. Lo sa bene Mervyn King, ex governatore della Banca d’Inghilterra, per il quale le politiche «dettate da Bruxelles e Francoforte hanno imposto enormi costi ai cittadini d’Europa. L’incapacità dei governi di prevenire l’alta disoccupazione e di evitare riduzioni nel tenore di vita ha portato alla disillusione. Era prevedibile che molti elettori avrebbero cercato rifugio in partiti anti-sistema».
Ecco perché il referendum è un pericolo in sé, oggi in Gran Bretagna, come domani in Finlandia, in Olanda e in Ungheria. Ha un valore simbolico di riappropriazione della sovranità nazionale ma anche un alto tasso emulativo presso chi sta a guardare e propone al suo elettorato: facciamolo anche noi.
La ragione, è chiaro ormai, dice no. Lo shock economico di una Brexit potrebbe essere limitato a una flessione dell’1% del pil britannico su base annua, e scomparire dopo tre anni. Ipotizzando però che l’80% delle banche europee e il 50% delle banche non britanniche e non europee si trasferirebbero nella zona euro per svilupparvi le loro attività, il flusso potenziale di capitali in entrata nella zona Ue sarebbe di 680 miliardi di sterline (circa 860 miliardi di euro), ossia l’equivalente del 34% del pil britannico e di almeno l’8% di quello dell’Eurozona. Basterebbero questi calcoli per scommettere su una vittoria degli stay sui leave: l’abbandono europeo sarebbe per Londra una Waterloo mai assaporata nella storia.
Eppure, in questi tempi così incerti, la pulsione a ridare ai popoli il diritto di autodeterminarsi, di chiudersi entro i propri confini, nell’illusione di rendersi autonomi dalla tirannia della finanza e impermeabili alla spinta migratoria, non permette previsioni dettate solo dai calcoli, anch’essi opportunistici, delle grandi banche d’affari.
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