di Sergio Corbello*
La notizia dell’uscita dell’atteso decreto del ministero del Lavoro, di concerto con quello dell’Economia recante i criteri di attuazione relativi all’aliquota agevolata del 10% sulla retribuzione variabile collegata alla produttività offre l’occasione per ricordare come l’ordinamento della previdenza complementare – decreto 252/2005 – contempli da tempo una semplice opportunità: l’utilizzo della contribuzione datoriale ai fondi pensione come elemento salariale. Si tratta per definizione di un salario differito, sebbene i diversi tipi di anticipazione previsti dall’ordinamento di settore rendano in qualche misura relativo il differimento stesso. Due le vie praticabili, una di natura contrattuale, l’altra esclusivamente basata sulla discrezionalità dell’impresa. La strada contrattuale, al pari dello schema di cui all’art. 1, della legge 208/2015, si realizza tramite l’applicazione di principi generalissimi, di cui all’art. 3 del decreto 252/2005, con la sottoscrizione di intese aziendali, di gruppo o territoriali che fissino traguardi di produttività, a fronte del cui raggiungimento ai dipendenti sia riconosciuto un versamento in cifra fissa (ex art. 8, comma 2, del dlgs n. 252/2005) una tantum di contribuzione alla previdenza complementare. Questo schema è attuabile anche in chiave regolamentare, là ove non si voglia o possa praticare la contrattazione collettiva decentrata e, in linea teorica, ma con qualche non secondaria difficoltà applicativa, potrebbe avere altresì a oggetto un apporto contributivo verso forme di sanità integrativa. Più peculiare il percorso discrezionale, che trova fondamento nell’art. 8, comma 10, del decreto 252/2005, là ove è consentito al datore di lavoro di disporre volontariamente alcuni versamenti contributivi a piani di previdenza complementare, in favore di propri dipendenti. È appena il caso di sottolineare che questa fattispecie si applica a una scelta premiale in senso stretto, del tutto avulsa da qualsivoglia impegno preliminarmente assunto dall’impresa. Per entrambe le ipotesi considerate, il contributo una tantum può confluire al fondo pensione a cui il lavoratore sia iscritto, se l’ordinamento del fondo lo consente, ovvero a una posizione aperta presso un fondo aperto. Il contributo per il lavoratore fa fiscalmente «quota esente» sino al limite di euro 5.164,57, considerando l’insieme di tutti i contributi annualmente versati per la previdenza complementare; per il datore è sempre deducibile dal reddito d’impresa e sconta l’imponibilità previdenziale del 10% (ex art. 16 del decreto 252/2005). Ovviamente un intervento ex art. 1 della legge 208/2015 e uno ex decreto 252/2005 sono cumulabili, realizzando un mix di salario corrente e differito potenzialmente apprezzabile. (riproduzione riservata)

*presidente, Assoprevidenza
Fonte: logo_mf
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