di Andrea Di Biase
Le indiscrezioni, riportate da MF-Milano Finanza venerdì 19 febbraio, secondo cui il governo Renzi starebbe valutando la possibilità di mettere mano alla normativa fiscale sulle successioni, aumentando l’aliquota per i patrimoni superiori ai 5 milioni di euro (portandole tra il 21 e il 45% a seconda del grado di parentela), sono tornate a circolare con forza proprio mentre a Piazza Affari l’attenzione degli investitori è puntata sulle possibili evoluzioni nella governance e negli assetti proprietari di due dei principali gruppi industriali italiani a controllo familiare: il gruppoLuxottica , controllato tramite la lussemburghese Delfin da Leonardo Del Vecchio, e il gruppo Fininvest-Mediaset , il cui controllo fa capo all’ex premier Silvio Berlusconi e ai suoi cinque figli.
Le dimissioni di Adil Mehboob-Khan dalla carica di amministratore delegato della multinazionale degli occhiali, al pari del coinvolgimento di Mediaset (che di Fininvest è il principale asset) nel risiko paneuropeo che sta infiammando il settore della telefonia e dei media (si veda articolo a pagina 28), potrebbero accelerare quel processo di ridefinizione degli assetti futuri dei due gruppi, che finora i loro fondatori non hanno ancora portato fino in fondo.
Se è infatti vero che da anni ormai Berlusconi ha girato parte del suo pacchetto azionario di Fininvest ai figli avuti dai suoi due matrimoni (entrambi chiusi con il divorzio, prima da Carla Dall’Oglio e poi da Veronica Lario), pur mantenendo per sé una quota del 63% che gli garantisce il controllo, e che Del Vecchio sul finire del 2014 ha ridisegnato i pesi nell’azionariato della lussemburghese Delfin, salendo al 25% della cassaforte in piena proprietà e diluendo le quote dei suoi sei figli (detenute in nuda proprietà con diritto di voto ancora appannaggio del capo famiglia) dal 16,5 al 12,5%, è altrettanto vero che nessuno dei due sembra ancora aver pianificato fino in fondo il futuro dei propri gruppi.
A differenza di quanto accaduto in casa Agnelli, dove il principio tanto caro all’Avvocato secondo cui «bisogna che a decidere e a comandare sia uno solo», si è concretizzato ormai nel lontano 1987 con la nascita dell’accomandita Giovanni Agnelli Sapaz, che da allora riunisce le partecipazioni detenute dagli innumerevoli discendenti del senatore Giovanni Agnelli I, ma dove il timone è oggi saldamente in mano a John Elkann, sia Berlusconi sia Del Vecchio non hanno designato ufficialmente il proprio successore alla guida del gruppo da loro fondato né hanno tracciato una strada per garantire ai propri figli un futuro da grandi rentier ma senza ruoli operativi. Una soluzione, quest’ultima, che passerebbe evidentemente o dalla cessione del controllo dei propri gruppi o da una grande alleanza internazionale con conseguente diluizione della partecipazione e dunque meno diritti dei figli a pretendere un posto nella prima linea manageriale. Ipotesi, quest’ultima, che, stando ai rumors circolati nelle ultime settimane, potrebbe valere sia per Luxottica (dopo l’uscita di Mehboob-Khan sono tornate le voci su un possibile merger con la francese Essilor o con la tedesca Zeiss) sia per Fininvest-Mediaset , da tempo sotto i riflettori del mercato in virtù del risiko che potrebbe coinvolgere a vario titolo Vivendi , Sky e Telecom.
Ma Fininvest e Luxottica non sono gli unici grandi gruppi italiani in cui i futuri assetti proprietari non sono ancora stati definiti con chiarezza. Incerto rimane anche il quadro relativo ad Esselunga, dove il 90enne Bernardo Caprotti è ancora saldamente al timone dell’azienda da lui fondata, ma anche in casa Benetton, dove solo qualche anno fa sembrava che le redini del gruppo sarebbero in futuro passate ad Alessandro, ma che ora non ha più incarichi operativi nelle aziende del gruppo.
Anche a Novara, dove ha sede il gruppo De Agostini, le famiglie Boroli e Drago, cui fa capo il controllo del gruppo, hanno da tempo messo in atto un articolato meccanismo societario che, grazie le regole di governance dell’accomandita B&D Holding, consente, come nel caso degli Agnelli, di non frammentare le partecipazioni azionarie tra i vari rami della famiglia ma che allo stesso tempo ha permesso di affidare a Marco Drago i poteri necessari a guidare un gruppo che spazia dall’editoria alle assicurazioni (il gruppo è uno dei grandi azionisti delle Generali ), dalla finanza ai giochi e a lotterie del colosso Igt. Questo non significa che chi in famiglia abbia intenzione di separare i propri destini da quelli del gruppo non possa agevolmente farlo. Le regole interne alla B&D holding, in vigore ormai da un anno, hanno già consentito ad alcuni rami della famiglia di liquidare, in parte, la loro partecipazione.
Meno intricata, considerato il numero degli eredi coinvolti, la situazione dei fratelli Gianmarco e Massimo Moratti. Dopo la cessione al colosso dell’energia russo Rosneft del 13,7% di Saras da parte della vecchia accomandita di famiglia Angelo Moratti sapa (che ha così incassato 178 milioni), i due fratelli hanno avviato e completato la scissione della stessa. L’intero patrimonio messo assieme negli anni dal fondatore, inclusa la partecipazione residua nella Saras , è stata divisa a metà tra i due fratelli. Dalle ceneri della vecchia accomandita ne sono nate due nuove, una per ciascuno dei due rami familiari. Le due società hanno successivamente sottoscritto tra loro un patto di sindacato, che prevede l’esercizio congiunto dei diritti di voto in assemblea e vincoli sul trasferimento delle azioniSaras . Nessuna delle due società in accomandita potrà trasferire le azioni senza il consenso dell’altra. Ma il riassetto non si esaurisce qui. Sia Gian Marco sia Massimo hanno tenuto per loro solo una piccola quota della propria accomandita, mentre il grosso del capitale è già stato suddiviso tra i figli. In particolare alla Massimo Moratti sapa, di cui l’ex presidente dell’Inter detiene solo lo 0,001% (la nuda proprietà della società è suddivisa infatti tra i due figli Angelo Mario e Giovanni) pur conservando l’usufruttuario su entrambe queste quote e quindi il diritto di voto, è stata recentemente girata la partecipazione di minoranza di circa il 30% che Massimo ancora deteneva nell’Inter dopo il passaggio del controllo all’indonesiano Erick Thohir.
L’istituto giuridico della società in accomandita è stato utilizzato anche in altri grandi gruppi industriali italiani. Lo hanno fatto i quattro fratelli Barilla, cui fa capo l’omonimo gruppo alimentare, hanno vincolate le rispettive partecipazione nell’azienda alla «Guido Maria Barilla & Fratelli», le cui quote paritetiche sono state a loro volta girate ad altrettante società in accomandita per ciascun ramo familiare. Di un’accomandita si è servito anche Luigi Cremonini (oggi 76enne) per pianificare il passaggio del controllo del gruppo alimentare. Già oggi il figlio Vincenzo, che da anni è al vertice dell’azienda, detiene a pieno titolo il 22,63% della Cafin Sapa, mentre su un altro 28,36% detiene la nuda proprietà con l’usufrutto in capo al padre Luigi. (riproduzione riservata)
Fonte: