C’è da farsene una ragione, chi ancora continuava a far finta che l’attenzione per l’ambiente non fosse importante, deve definitivamente capitolare. Grazie alla nuova disciplina degli ecoreati, tutte le società che svolgono attività a impatto ambientale sono oggi chiamate a considerare gli effetti dell’introduzione dei nuovi delitti contro l’ambiente sulla propria struttura organizzativa e a procedere all’aggiornamento o alla predisposizione di un modello organizzativo, analizzando i rischi di commissione degli ecoreati e verificando la presenza di procedure e protocolli di prevenzione.
Sulle buone intenzioni della norma non ci sono dubbi, ma su alcuni aspetti i professionisti del diritto non sono tutti d’accordo, specialmente su quell’ «abusivamente» che deve caratterizzare il compimento di un’attività di inquinamento o disastro ambientale perché possa essere punita a norma di legge.
L’impatto della nuova disciplina ambientale sulle imprese (legge 22 maggio 2015, n. 68 «Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente»), è significativo sotto diversi profili. In primo luogo, spiega ad Affari Legali Caterina Flick dello studio Nunziante Magrone «gli ecoreati sono presupposto per l’applicazione della responsabilità amministrativa delle imprese che, data la gravità delle pene previste, potrà essere invocata anche in caso di inquinamento di siti esteri.
In secondo luogo, il patrimonio dell’impresa può essere aggredito con la confisca. Infatti è ordinata la confisca diretta: delle cose che costituiscono prodotto o profitto o che sono servite a commettere il reato, nonché delle cose, denaro, beni o altre attività di cui il condannato non può giustificare la provenienza (salvo che appartengano a persone estranee al reato). La confisca può essere disposta per un valore equivalente su cose di cui il condannato abbia la disponibilità o di cui risulti titolare, anche indirettamente o per interposta persona (anche giuridica), o di cui abbia la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato rispetto al proprio reddito o attività economica». In caso di condanna dell’impresa per inquinamento ambientale e disastro ambientale», continua Caterina Flick, «si applicano all’impresa anche sanzioni interdittive, per un periodo non superiore a un anno. Ne consegue la possibilità di adottare provvedimenti interdittvi anche nel corso del processo, come misure cautelari. «Il Codice dell’ambiente già prevedeva l’interdizione definitiva per il caso in cui l’ente o una sua unità organizzativa siano stabilmente utilizzati unicamente o prevalentemente per il traffico di rifiuti o in caso di inquinamento doloso provocato da navi: il legislatore, tuttavia non ha esteso la stessa previsione agli ecoreati di nuova introduzione. Segue infine alla condanna (o in caso di patteggiamento) per gli eco reatil’incapacità di contrattare con la P.A. I meccanismi premiali sopra illustrati sono stati previsti anche a beneficio delle imprese: la confisca, in particolare, è infatti esclusa in caso di bonifica o ripristino già effettuate dall’imputato.
Tale previsione riguarda però soltanto i reati previsti dal codice penale e non i reati previsti dal codice dell’ambiente», conclude l’avvocato Flick.
Il provvedimento, considerato una svolta epocale per la tutela dell’ambiente, da un lato introduce nel codice penale i delitti di inquinamento e disastro ambientale e l’aggravante ambientale per reati comuni, dall’altro dà nuova importanza alle attività dirette alla bonifica e al ripristino dei siti inquinati. Con le nuove norme però le cose cambiano anche ai sensi del decreto legislativo 231 del 2001, le società infatti rischiano di essere penalmente sanzionate non soltanto all’esito del processo, ma sin dalla fase delle indagini: «ciò in quanto, in relazione a talune ipotesi di «ecoreati» (segnatamente, inquinamento ambientale e disastro ambientale) è prevista – oltre che l’applicazione delle sanzioni pecuniarie previste dalla normativa 231 – anche l’applicazione delle sanzioni interdittive, che possono essere applicate alla società anche in via cautelare». Lo spiega Emilio Battaglia, partner di Cms Adonnino Ascoli & Cavasola Scamoni aggiungendo che in relazione ad alcune delle nuove fattispecie di reato, «la nuova disciplina prevede l’applicazione della confisca anche per equivalente (con conseguente possibilità di sequestro preventivo in via cautelare). Pertanto, nell’ottica di prevenire eventuali contestazioni è quanto mai opportuno dotarsi di un efficace strumento, quale un modello di organizzazione e gestione della società aggiornato».
È indubbio che le società, per non incorrere in sanzioni penali o pene interdittive, dovranno sostenere ulteriori costi di gestione e dovranno rivedere il loro modello di organizzazione. Ad esempio, secondo Pierino Postacchini socio fondatore dello studio BP&A «uno strumento da attuare su base volontaria, a disposizione delle imprese per attuare un’efficace gestione ambientale, è il Sistema di Gestione Ambientale conforme alla norma Iso 14001:2015. Tale soluzione permette di monitorare le criticità e mette nelle condizioni le aziende di prevenire eventi inquinanti e mantenere sotto controllo le attività lavorative critiche e soprattutto migliorare le prestazioni ambientali a tutto vantaggio della gestione d’impresa e del business».
La pensa così anche Antonio Carino, senior associate di Dla Piper secondo il quale «il primo passo è quello di svolgere un puntuale assessment con il contributo di avvocati penalisti e tecnici specialisti della materia.Ulteriori strumenti utili sono le certificazioni volontariein materiaambientalequali la oEco-Management and Audit Scheme (Emas), che richiedono l’adozione di un sistema di gestioneambientale(Sga) finalizzato a migliorare continuamente e prevenire l’impatto sull’ambiente dell’attività aziendale nonché all’ottenimento di specifiche autorizzazioni. Infine, ritengo rilevante anche il tema della corretta definizione della delega di funzioni in materiaambientaleall’interno dell’organizzazione».
A differenza di quanto previsto per i reati in materia di salute e sicurezza, la normativa sugli ecoreati», fa notare Claudia Grilli, avvocato di Deloitte Legal, «non ha riconosciuto, ad oggi, l’efficacia esimente dei sistemi di gestione ambientale adottati dagli enti (ad es. Uni En Iso 14001, Regolamento Emas). L’adozione di un sistema di gestione certificato potrebbe, cionondimeno, rappresentare un’idonea misura di prevenzione se adeguato al rischio ambientale espressamente indicato nel D.Lgs. 231/2001 e alle peculiarità operative dell’ente. La giurisprudenza di merito ha, difatti, riconosciuto a tali standards il valore di «migliore tecnologia disponibile» sotto il profilo organizzativo, idonea a provare l’atteggiamento virtuoso dell’impresa».
Tra gli strumenti attraverso i quali le imprese potrebbero prevenire la commissione di reati ed evitare le relative sanzioni dovrebbero essere considerata secondo Grilli anche «la verifica ed eventuale revisione del sistema di deleghe e procure in materia ambientale, posto che nelle realtà aziendali di grandi dimensioni è consentito delegare a soggetti tecnicamente preparati le funzioni assegnate dalla legge. La delega di funzioni deve essere articolata secondo i requisiti indentificati dalla giurisprudenza (e già recepiti a livello legislativo nell’art. 16 D.Lgs. 81/2008 in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro)».
Sul tema dei nuovi ecoreati, l’impostazione di uno studio legale che offre una consulenza al proprio cliente secondo Luca Geninatti Satè di Legance è davvero utile «se adotta un approccio integrato: se, quindi, fin dall’analisi dei rischi, considera in modo ampio e complessivo tutte le peculiarità dell’azienda e delle attività che essa svolge e se, con questa consapevolezza e con metodo critico, è in grado di supportarla nella definizione delle procedure e dei controlli.
L’interpretazione delle norme penali, accompagnata dalla conoscenza del diritto ambientale sostanziale, è a sua volta uno strumento essenziale per costruire una compliance appropriata e non standardizzata».
All’indomani dell’entrata in vigore della norma però fra avvocati, magistrati ed esperti del settore si è immediatamente acceso un vivace dibattito circa l’opportunità della scelta del legislatore della riforma di punire il disastro ambientale solo se causato «abusivamente». «Con riferimento ad altre fattispecie di reato ambientale, si sono affermate nel tempo due correnti interpretative: secondo la prima, l’avverbio «abusivamente» porterebbe a punire solo un disastro ambientale cagionato da imprese prive, in tutto o in parte, delle autorizzazioni necessarie allo svolgimento della propria attività», spoega Claudia Grilli, aggiungendo che questo orientamento «restringe tuttavia notevolmente il campo di applicazione della fattispecie, se si pensa che disastri ambientali potrebbero essere cagionati anche da aziende che violano i limiti imposti, più in generale, dalla normativa ambientalea pplicabile. In altri casi, la giurisprudenza ha infatti accolto un’interpretazione più estesa della nozione di condotta abusiva, andando a ricomprendervi ogni «violazione delle regole vigenti in materia». Non resta quindi che attendere l’interpretazione con riferimento alreato di «disastro ambientale» al banco di prova processuale», conclude Grilli.
L’aggettivo abusivo è necessario secondo Gianluca Atzori, di Cleary Gottlieb, «per evitare che qualsivoglia impatto ambientale abbia rilevanza penale. Anche un respiro, o l’utilizzo della propria autovettura altera l’atmosfera. Era necessario circoscrivere la sanzione penale a quelle condotte effettuate in violazione delle norme ambientali, e dunque abusive».
A concordare pienamente con i critici c’è invece Luca Basilio di Simmons & Simmons: «concettualmente è difficile ipotizzare un disastro o un inquinamento ambientale che venga pubblicamente annunciato prima della sua messa in atto Ironie a parte, si tratta di vedere come la giurisprudenza interpreterà l’avverbio «abusivamente»: se verrà considerata una superfetazione legislativa, nessun problema; in caso contrario, se cioè l’avverbio verrà considerato un qualcosa in più, quantomeno sotto il profilo soggettivo, per la configurabilità del reato, la norma ne risulterà fortemente depotenziata».
Anche per Jean Paule Castagno di Clifford Chance con il nuovo delitto di disastro ambientale, «gli operatori del diritto si troveranno, in sede di applicazione, davanti a numerosi problemi interpretativi di non facile soluzione, tra i quali spiccano: la successione di leggi penali nel tempo in relazione al reato di cui all’art. 434 c.p. (c.d. disastro innominato); l’irragionevolezza della clausola di sussidiarietà espressa, in quanto obbliga l’interprete ad applicare ai fatti più gravi la fattispecie meno severa di disastro innominato e ai fatti meno gravi la fattispecie più severa di disastro ambientale; l’inquadramento dell’avverbio abusivamente e la definizione dell’evento di alterazione di un ecosistema».
Ci va giù pesante anche Postacchini, secondo il quale «sicuramente la norma che prevede il delitto di disastro ambientale non poteva essere scritta peggio. Non sono stati risolti i problemi posti dalla Giurisprudenza sull’inizio della prescrizione, ciò non da certezza al diritto. Soprattutto, la formula linguistica utilizzata per descrivere il disastro ambientale, risulta essere poco chiara e troppo generica per poter arrivare a delineare con certezza il comportamento incriminato. Speriamo che la Giurisprudenza colmi con la nuova previsione tale lacuna».
Non ha dubbi anche Alessandro De Nicola, deputy leader del corporate group di Orrick e senior partner degli uffici italiani di Milano e di Roma, secondo cui «la formulazione della norma può dare adito ad incertezze interpretative. L’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione (Rel. III/04/2015) si è però già espresso per una interpretazione estensiva del termine «abusivamente» utilizzato dal legislatore, suggerendo una rilevanza della fattispecie penale non confinata alle sole ipotesi di condotte non sostenute da titoli autorizzativi. Staremo a vedere se i giudici di merito si conformeranno o meno a tale orientamento».
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