C’è un fantasma che si aggira per l’Italia, penetra nelle redazioni di giornali e, attraverso il giustizialismo dei talk show, si introduce, notte tempo, nelle case degli italiani ad accendere ed alimentare i falò di un’invidia sociale, travestita di sete di giustizia, tanto più bisognosa di essere placata, quanto più si riferisce al principale desiderio degli italiani: andare in pensione il prima possibile con un assegno decoroso.
Il fantasma si chiama «sistema contributivo»: ovvero un meccanismo di calcolo della pensione ragguagliato all’intero ammontare dei contributi versati durante la vita lavorativa.
Per ogni anno di lavoro viene accreditata (il finanziamento resta a ripartizione e cioè sono gli attivi a pagare i trattamenti in essere) una somma corrispondente ad una quota della retribuzione o del reddito. Il suo importo, rivalutato sulla base del Pil nominale, va a formare un montante complessivo che, moltiplicato per i c.d. coefficienti di trasformazione corrispondenti (secondo criteri attuariali periodicamente aggiornati all’attesa di vita) all’età anagrafica al momento del pensionamento, vanno a definire l’importo del trattamento pensionistico.
uesto sistema, introdotto dalla riforma Dini-Treu del 1995, si applicava in tutto o in parte a partire dal 1996 (ne erano esclusi i soggetti che avevano maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a 18 anni per i quali continuava a valere il c.d. calcolo retributivo). In seguito alla riforma Fornero del 2011, il metodo contributivo è in vigore per tutti, pro rata, dall’inizio del 2012. Il calcolo contributivo è certamente più corretto ed equo di quello retributivo, che, introdotto con la riforma del 1969, è rivolto ad assicurare al pensionato un reddito equipollente (il c.d. tasso di sostituzione) a quello acquisito nell’ultima fase della vita lavorativa. Basta questa notazione per far comprendere quale fosse il soggetto sociale preso a riferimento: un lavoratore con un percorso stabile e continuativo e con una retribuzione in aumento con il passare degli anni, il soggetto tipico – spesso più da manuale che nella realtà – della società industriale. La pensione viene calcolata secondo la seguente formula: 2% x n = % della retribuzione pensionabile degli ultimi (ora 10 per i dipendenti) anni di lavoro. Il 2% rappresenta il rendimento per ogni anno di servizio, «n» il numero degli anni: il che consente di percepire, al massimo, l’80% con 40 anni di assicurazione (o, in proporzione, meno a seconda del numero degli anni lavorativi).
In sostanza, nel sistema retributivo è implicita una «rendita di posizione» che non esiste in quello contributivo. Ciò premesso, a questo punto comincia un’altra rappresentazione distorta della realtà. I pensionati del retributivo (per la quasi totalità dei trattamenti in essere) vengono descritti come nababbi (dimenticando che vi sono almeno 3,5 milioni di assegni, liquidati con quel tipo di calcolo, integrati al minimo); mentre i pensionati di domani, vittime del contributivo, saranno poveri in canna. Da qui nasce il desiderio di vendetta: i «paperoni» paghino il fio delle loro malefatte (aver avuto applicate le leggi in vigore) subendo tagli strutturali sui loro assegni alla faccia dei diritti acquisiti. Ma non è vero che, di per sé, il contributivo sia peggiore del retributivo, che da una parte stia tutto il male, dall’altra tutto il bene possibile. Vi sono dei vantaggi e degli svantaggi reciproci.
Ad esempio, il sistema retributivo ha al proprio interno un correttivo per i redditi più elevati, nel senso che il tasso di rendimento dei contributi versati è pari al 2% fino ad una quota di retribuzione pensionabile di 46mila euro l’anno; al di sopra di tale soglia il lavoratore continua a versare fino all’ultimo euro, ma il rendimento scende gradualmente fino allo 0,90%. Ne deriva che il tasso di sostituzione di una persona con una retribuzione elevata, dopo 40 anni di lavoro, non è più l’80% ma è prossimo al 60%. Nel contributivo non è così. È vigente un tetto pensionabile e contributivo fino a 100mila euro l’anno, al di sopra del quale non si pagano più i contributi (e non vi è retribuzione pensionabile). Inoltre, mentre nel retributivo vi è un massimale di 40 anni, al di sopra del quale gli anni lavorati non contano ai fini della pensione, nel contributivo tutti gli anni «attivi» concorrono a formare il montante contributivo mentre il moltiplicatore cresce quanto più tardi si va in pensione.
Le pensioni retributive, poi, nei decenni, sono state ridimensionate da contributi di solidarietà e da ripetute manomissioni della rivalutazione automatica. Vi sono, inoltre, dei casi accertati in cui sarebbe più vantaggioso uscire dal retributivo e farsi calcolare la pensione con il contributivo, tanto che tale opzione è sempre stata contrastata, in vario modo. La vera differenza, dunque, tra i giovani e gli anziani non riguarda tanto le regole con cui si va in quiescenza, ma come si entra e si rimane nel mercato del lavoro, durante la vita attiva. La pensione ne vive di luce riflessa. La discriminazione storica nei confronti dei giovani non è determinata, allora, dal sistema pensionistico, ma dalle condizioni di vita, dall’economia e dalla trasformazione del lavoro. Ecco perché, oltre ad impostare un diverso sistema pensionistico che tuteli i lavoratori di oggi e di domani (senza fingere che siano uguali a quelli di ieri), occorre ripensare quel modello di welfare (flexsecurity, nuova generazione di ammortizzatori sociali, politiche attive, formazione e riqualificazione, valorizzazione delle competenze, ecc.) che interviene durante la vita attiva, per riunificare ciò che non sono più in grado di fare le vecchie regole del mercato del lavoro. In caso contrario, si potrà anche ”mozzare il capo” a qualche ”pensione d’oro” o eliminare alcuni sgradevoli privilegi. E sarà anche il caso di farlo. Ma la condizione dei giovani non cambierà. Né adesso né quando andranno in pensione.
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