di Luisa Leone
Limiti nuovi e stringenti agli investimenti delle casse privatizzate. È all’attenzione del Consiglio di Stato il decreto che stabilisce, come già accaduto per i fondi pensione, dove e come gli enti previdenziali di primo pilastro potranno investire le loro ingenti disponibilità. Il provvedimento, che MF-Milano Finanza ha potuto consultare, individua il bacino degli strumenti «finanziari negoziati nei mercati regolamentati» come quello in cui gli enti dovrebbero puntare la stragrande maggioranza delle loro fiches, ovvero il 65% delle disponibilità complessive.
Solo il rimanente 35%, infatti, potrà essere utilizzato per tutte le altre categorie di asset: dal private equity alle infrastrutture, dai fondi di debito all’immobiliare. Tuttavia, visto che le casse sono ancora gonfie di mattone, si stabilisce che di questo 35% la gran parte delle risorse (fino al 30% complessivo) possa essere riservato all’immobiliare, con solo il 5% rimante investibile in altri strumenti.
Un elemento che rischia di comprimere ancora di più la porzione di risorse che gli enti potranno destinare all’economia reale, ha denunciato di recente Lello Di Gioia, presidente della Commissione parlamentare di controllo sull’attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale. Di sicuro la previsione sugli investimenti alternativi, letta insieme a quella sul mattone, sembra in contraddizione con le ambizioni del Piano Juncker, che per moltiplicare davvero gli investimenti nei singoli Paesi avrà bisogno anche dell’impegno di investitori privati di lungo periodo. E per la verità pare andare in senso opposto anche al decreto sul credito di imposta pubblicato lo scorso agosto, che cerca di spingere fondi e casse proprio verso infrastrutture, private equity, finanziamenti alle pmi.
Il vincolo sull’asset allocation, che vale per tutti gli enti a prescindere da dimensioni e capacità di gestione, non è comunque l’unico. Ce n’è anche un secondo, che fissa le percentuali massime che ogni cassa potrà investire in una singola società. Per le quotate l’asticella è piazzata al 5% del capitale con diritti di voto, mentre per le non quotate e tutti i tipi di fondi alternativi (private, infrastrutture, ecc) il limite è del 10%. Limite che non varrà solo per «sottoscrizione o acquisizione di azioni o quote di società immobiliari», recita il testo. Ancora, non più del 5% delle disponibilità complessive di un ente previdenziale privatizzato potrà essere puntata su strumenti emessi da un solo soggetto o da soggetti appartenenti a uno stesso gruppo; con l’eccezione di investimenti immobiliari, oicvm, e fondi di investimento alternativi.
Un big bang, insomma, che prevede anche novità sul ricorso ai derivati, la trasparenza, le incompatibilità, e che dovrebbe concretizzarsi entro 18 mesi. Questo infatti è il tempo che il decreto dà alle casse per adeguarsi ai nuovi paletti, un tempo che però rischia di essere davvero poco per mettersi in regola con i nuovi limiti fissati per le partecipazioni in una singola società quotata (5%) o in aziende e fondi non quotati (10%), senza correre il pericolo di far prevalere il criterio temporale su quello dell’adeguata valorizzazione delle quote eccedenti i nuovi tetti. Anche perché la dead line dei 18 mesi sembrerebbe valere per tutte le partecipazioni, anche quelle già in essere, e non solo per quelle che saranno acquistate dopo l’entrata in vigore del regolamento. Infine, per mettersi in regola sotto il profilo della asset allocation (65% di strumenti quotati e 35% il resto) gli enti avranno dieci anni di tempo, se trasmetteranno ai ministeri competenti (Tesoro e Lavoro) «un piano di rientro», che sarà monitorato dalla Covip.
Non è detto comunque che delle modifiche non possano essere apportate in zona Cesarini, anche perché a quanto pare il Consiglio di Stato non avrebbe ancora dato il via libera al testo. (riproduzione riservata)