di Mauro Romano
Ieri, proprio nel giorno in cui la commissaria Ue alla Concorrenza Margaret Vestager è arrivata a Roma per discutere con ministri e governatore della Banca d’Italia di bad bank e fondi di turnaround, il governo ha approvato il decreto attuativo della direttiva europea per il risanamento e la risoluzione delle crisi bancarie, già recepito dal Parlamento.
Si tratta insomma del provvedimento che impone anche all’Italia di abbandonare la regola di fatto per cui nessun correntista ha mai perso un soldo in caso di crisi bancaria. Con le nuove regole europee, che scatteranno il 1° gennaio 2016, per evitare il dissesto di un istituto, se non bastassero gli azionisti, potrebbero essere invece chiamati a contribuire anche gli obbligazionisti e i correntisti, questi ultimi però solo per le cifre eccedenti il limite di 100 mila euro di depositi. In attesa di conoscere nel dettaglio i contenuti del decreto licenziato ieri dal governo vale la pena ricordare alcuni punti fermi posti dalla Banca d’Italia dopo la consultazione pubblica tenuta alcuni mesi fa. Il processo di risoluzione può essere avviato da Via Nazionale quando: a) la banca è in dissesto o a rischio di dissesto (ad esempio, quando a causa di perdite l’intermediario abbia azzerato o ridotto in modo significativo il proprio capitale); b) non si ritiene che misure alternative di natura privata (quali aumenti di capitale) o di vigilanza consentano di evitare in tempi ragionevoli il dissesto dell’intermediario; c) sottoporre la banca alla liquidazione ordinaria non permetterebbe di salvaguardare la stabilità sistemica, di proteggere depositanti e clienti, di assicurare la continuità dei servizi finanziari essenziali e, quindi, la risoluzione è necessaria nell’interesse pubblico.
Se ricorrono queste condizioni la Banca d’Italia potrà: vendere una parte dell’attività a un acquirente privato; trasferire temporaneamente le attività e passività a un’entità (bridge bank) gestita dallo stesso Palazzo Koch per proseguire le funzioni più importanti, in vista di una successiva vendita sul mercato; trasferire le attività deteriorate a un veicolo (bad bank) che ne gestisca la liquidazione in tempi ragionevoli; applicare il bail-in, ossia svalutare azioni e crediti e convertirli in azioni per assorbire le perdite e ricapitalizzare la banca in difficoltà o una nuova entità che ne continui le funzioni essenziali. L’intervento pubblico è previsto soltanto in circostanze straordinarie per evitare che la crisi di un intermediario abbia gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema finanziario. L’attivazione dell’intervento pubblico richiede comunque che i costi della crisi siano ripartiti con gli azionisti e i creditori attraverso l’applicazione di un bail-in almeno pari all’8% del totale del passivo. (riproduzione riservata)