Quanto vale The Economist? Secondo il sito Usa Quartz.com, più di 1,3 miliardi di euro, a giudicare dal prezzo con cui è passato di mano il 50% del capitale, ovvero 661 milioni di euro. A vendere è stato Pearson, entrato nel capitale nel 1957, e a comprare sono stati John Elkann (Exor ) e l’Economist stesso.
Exor che già aveva il 4,7% delle azioni (Elkann è anche consigliere non esecutivo del gruppo media) verserà 404 milioni di euro per divenire il singolo maggiore azionista, con il 43,4% nel gruppo. Il resto delle azioni di Pearson sarà riacquistato con un buyback dal The Economist Group, che finanzierà l’operazione vendendo il quartier generale di Londra, a St. James’s Street. Il buyback aumenterà il peso dei soci attuali, dando al secondo più grande azionista, la famiglia di Lynn Forester de Rothschild e Sir Evelyn Rothschild, circa un quarto delle azioni, contro un quinto di oggi. Altri soci di minoranza sono le famiglie Cadbury e Schroder. L’Economist è poco indebitato, circa 24 milioni di euro, e un terzo delle vendite e dei profitti del gruppo viene da due attività collaterali, l’Economist Intelligence Unit, società di ricerche, e la CQ Roll Call, casa editrice specializzata nell’informazione e analisi politica americana. Ma che tipo di affare ha fatto Elkann? Sul piano economico, ha valutato la società 1 miliardo di euro, pagando 2,2 volte il fatturato e 12 volte l’ebitda 2014 (60 milioni di sterline, 86.4 milioni di euro). Questo multiplo è la metà di quanto pagato dai giapponesi di Nikkei per il Financial Times, ma è comunque generoso. Jeff Bezos due anni fa ha pagato 260 milioni di dollari per avere il Washington Post, che perdeva ma che fatturava 583 milioni di dollari.
Ma sul piano della governance, Elkann non poteva capitare in luogo peggiore. Con il 43%, potrà votare solo per il 20% del capitale. Pur stigmatizzando nei propri articoli le strutture bizantine di controllo delle società quotate, l’Economist ne adotta una ancora più complessa, con più classi di azioni e un potente comitato di quattro trustees, la baronessa Bottomley of Nettlestone, Tim Clark, Lord o’Donnell e Bryan Sanderson, che deve approvare ogni trasferimento di azioni e ha nomina il direttore della rivista e il presidente della società. Almeno, Elkann è una figura apprezzata dalla linea editoriale del settimanale? In attesa di vedere come Zanny Minton Beddoes tratterà Fca nei prossimi numeri, vale la pena rileggere un’inchiesta del 2007, su come le società familiari governavano i rispettivi gruppi industriali. Alla famiglia Agnelli era riservato un ampio paragrafo in cui veniva definita maestra nell’uso delle scatole cinesi (allora c’erano ancora Ifi e Ifil ), citando proprio Elkann come «vivida illustrazione» di un sistema uso a esercitare un’influenza fuori misura rispetto alle piccole partecipazioni: «John Elkann controlla una società denominata Dicembre, che ha il 31% dei voti nella società in accomandita Giovanni Agnelli & C. Decine di altri discendenti del fondatore della Fiat , nessuno dei quali ha più del 5%, detengono quasi tutte le altre azioni. Ciò rende la posizione del sig. Elkann inattaccabile, a meno di un’improbabile alleanza del resto della famiglia contro di lui. Quindi il resto della famiglia, Elkann a parte, fornisce il capitale ma non ha voce in ciò che accade. Intanto, l’uomo che controlla la Fiat ne possiede solo il 3,5%». Welcome, Mr. Elkann.