di Renato Giallombardo*
Si parla sempre troppo poco dei fondi pensione, della loro funzione, del ruolo che hanno o che potrebbero avere come promotore di sviluppo e competitività. In quasi tutti i Paesi occidentali, i fondi pensione svolgono un doppio ruolo. Da un lato sono i pilastri su cui poggiano i trattamenti pensionistici, dall’altro sono investitori, attivi, attenti, professionali. Investitori che funzionano da motore dell’economia delle imprese, per il lavoro e di conseguenza per l’aumento di quella platea di contribuenti da cui traggono linfa, a vantaggio di tutto il sistema. Un dato su tutti. Il primo investitore al mondo in economia reale è il Canada Pension Plan. Il più importante fondo pensione canadese investe 28 miliardi di dollari, pari al 21% della propria asset allocation, in fondi di sviluppo per le imprese a livello globale, i fondi di private equity. Gran parte di questi fondi pensione svolgono una funzione da «primo pilastro», erogando il trattamento pensionistico di base, in tutto o in parte. Sono molto attrezzati e corteggiati dalle istituzioni finanziarie, posseggono quote in grandi fondi di investimento, in società multinazionali o strategiche, investono in ogni parte del mondo. Il loro ruolo è assimilabile a quello dei cosiddetti fondi sovrani. Non sono frutto di un patto tra imprese e sindacati. Sono regolati per legge in modo semplice con garanzie forti di professionalità del management, elevata trasparenza, reporting comprensibile e capacità di visione degli obiettivi. Selezionano classi di investimento ad ampio spettro, senza condizionamenti ideologici e con l’intento di offrire trattamenti pensionistici e servizi sempre più evoluti e funzionali.
Tutto questo (con qualche rara eccezione) è molto lontano dalla nostra realtà. Anche se è da qualche tempo che nel nostro Paese si parla di una riforma dei fondi pensione. E come tutte le riforme, se non arrivano dal basso, vengono sollecitate e promosse dall’alto. L’attuale sistema italiano, riformato nel 2005, presenta una platea di quasi 500 fondi pensione, divisi tra preesistenti (la maggior parte) e negoziali, aperti e individuali, interaziendali o convenzionali. Questi fondi gestiscono un patrimonio complessivo di oltre 130 miliardi di euro. Una larga parte è costituita in forma di associazione riconosciuta con consigli di amministrazione e gestione pletorici, fino a 20 componenti, suddivisi «equamente» tra rappresentanti sindacali e datori di lavoro. La gestione può essere diretta o affidata a un intermediario finanziario. Le dimensioni sono tra le più varie; si va da qualche milione di euro sino ai quasi 8 miliardi di patrimonio gestito. E le competenze per far parte degli organi di gestione sono ai minimi. Regolate da un decreto del ministero del Lavoro del 2007, i criteri di professionalità sono a maglie larghissime. Basti pensare che è consentito a soggetti che abbiano frequentato un corso di formazione di sei mesi (150 ore di lezione) di gestire patrimoni veramente molto ingenti. Insomma, il fondo pensione è oggi in Italia un animale finanziario strano, singolare, frutto di un compromesso ideologico più che di un reale ragionamento su come far funzionare uno strumento essenziale per un sistema, quello pensionistico, che sempre più sarà misto, pubblico-privato, e in cui gli strumenti di secondo pilastro aumenteranno progressivamente di importanza. Per questo, al di là degli intenti degli emendamenti al disegno di legge sulla Concorrenza, in discussione alla Camera, una seria riforma di tali strumenti non è rinviabile, e che preveda: aggregazione dei fondi a livello patrimoniale e contemporanea riduzione dei componenti degli organi amministrativi, drastico aumento delle professionalità con introduzione di elevati requisiti di competenza ed esperienza, aumento della trasparenza, competizione tra fondi pensione sui servizi per i beneficiari e chiarezza sugli indici di costo-rendimento. Serve far progredire e in fretta un mercato chiave, anche per evitare il peggio. Infatti sinora i nostri fondi pensione hanno goduto di rendimenti sicuri grazie ai forti investimenti in titoli di debito pubblico. Oltre il 60% dell’asset allocation è stato destinato a questi strumenti finanziari, e il resto è stato investito su asset immobiliari o su azioni e obbligazioni quotate. Quasi inesistente la porzione diretta alle imprese non quotate e alle pmi. Sinora i rendimenti dei titoli di Stato (e anche quelli immobiliari) hanno garantito ritorni più che soddisfacenti. Ma quei tempi sono alle spalle e il debito sovrano (in particolare quello italiano) non garantirà più i ritorni di una volta. Necessario quindi immaginare nuovi tipi di investimento. Forse soprattutto per questo la riforma va fatta e subito, perché senza questa riorganizzazione non si potranno avere soggetti in grado di raccogliere le nuove sfide di investimento che la stessa Ue richiede di affrontare. È necessario lasciar progredire il mercato in modo autonomo, libero, aggregando i fondi e regolando al contempo in modo chiaro ed efficace la professionalità e la competenza dei soggetti responsabili della gestione. Sottraendo le deroghe oggi esistenti tra i vari tipi di fondo, uniformando la normativa e creando un sistema di reporting e gestione capace di fare selezione e creare concorrenza tra gli operatori. Quanto alla portabilità, sarà un passo ulteriore, ma penso sia opportuno attendere prima la riorganizzazione interna. (riproduzione riservata)
*partner, studio Gianni Origoni
Grippo Cappelli & Partners