di Anna Messia
I rendimenti, finora, sono stati buoni. I fondi pensione, e le polizze previdenziali (Pip) negli ultimi anni hanno battuto i benchmark di riferimento e soprattutto hanno dato soddisfazione ai lavoratori che hanno scelto di metterci dentro la propria liquidazione. Perché, in media, le forme di previdenza complementare hanno superato ampiamente la rivalutazione automatica che viene applicata al Tfr mantenuto in azienda.
Ma ora c’è un pericolo all’orizzonte, che si è palesato proprio mentre il governo ha deciso di rimettere mano qua e là alle regole dei fondi, aumentando per esempio il prelievo fiscale, salito al 20% sul maturato. A destare l’attenzione degli addetti ai lavori sono i tassi d’interesse ai minimi storici che rischiano di avere pesanti effetti negativi sulle performance future dei fondi che storicamente sono stati grandi sottoscrittori di titoli di Stato e in particolare del debito pubblico italiano. «Il nuovo scenario dei mercati aumenta il rischio che i fondi non riescano a riconoscere in futuro i rendimenti raggiunti in passato», ha sottineato nei giorni scorsi Marina Rossella Di Bartolomeo, responsabile dei fondi pensione della Pioneer Investment Management sgr, chiamata in audizione dalla Commissione Enti gestori della Camera, riferendosi proprio ai bassi tassi d’interesse. La società di gestione del gruppo Unicredit, tra fondi pensione e enti previdenziali, amministra un patrimonio di 6.953 milioni di euro. Si tratta quindi di un campione decisamente significativo e a sottolineare come il sistema sia pericolosamente sbilanciato verso i titoli di Stato è stata anche la compagnia assicurativa Unipol, chiamata anch’essa in audizione alla Camera. «Gli investimenti effettuati dal gruppo Unipol sui prodotti previdenziali vedono la presenza preponderante nei portafogli dei titoli di Stato», ha detto Matteo Laterza, direttore generale area finanza del gruppo Unipol, pari precisamente al «78% del totale, di cui l’82% investito in titoli emessi dalla Repubblica italiana». Titoli che in passato, hanno dato buoni rendimenti ma ora, con il calo dei tassi, i fondi e le polizze, così come le casse previdenziali, dovranno aumentare il peso di altri strumenti più redditizi. E tra questi potrebbero esserci quelli che consentano l’investimento in economia reale, come del resto vorrebbe anche il governo. In questo modo, tra l’altro, secondo quanto previsto dalla legge di Stabilità, i fondi otterrebbero anche un credito d’imposta del 9% del risultato netto maturato, riducendo quindi l’effetto negativo dell’aumento della tassazione dei rendimenti. Ma gli ostacoli non mancano. «La condizione per beneficiare del credito è che un ammontare corrispondente al risultato netto maturato assoggettato all’imposta venga investito in attività di carattere finanziario a medio lungo termine individuate con decreto del ministero dell’Economia», sottolinea il presidente di Assoprevidenza, Sergio Corbello. L’obiettivo è quindi chiaramente di far si che i fondi investano nell’economia del Paese, ma ad oggi il regolamento del ministero non è ancora stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
Ai dubbi su quali saranno gli investimenti utili a ridurre la pressione dei fisco sui fondi se ne aggiungono altri, come sottolineano gli addetti ai lavori. Il credito d’imposta potrà avvenire solo a decorrere dal 2016 in poi, esclusivamente in compensazione e nei limiti dello stanziamento previsto, pari a 80 milioni, e resta ancora da chiarire come sarà ripartito questo plafond. «Escludendo il meccanismo a rubinetto, cioè l’attribuzione del credito fino all’esaurimento del plafond, bisognerà salvaguardare i tempi tecnici necessari agli investitori istituzionali per perfezionare l’iter procedurale di approvazione dell’investimento», aggiunge Corbello. Insomma, il rischio è che si potrebbe aprire una gara a chi arriva per primo visto che lo stanziamento è fissato in 80 milioni. Non solo. Bisognerà anche stare attenti a non penalizzare chi magari, spontaneamente, ha già investito in qualcuno degli strumenti che saranno presenti nella lista del ministero. Se questi fondi, per ottenere i benefici fiscali, fossero costretti a investire nuove risorse potrebbero dover aumentare eccessivamente il rischio, a danno degli aderenti. Anche se, ad oggi, sembrano ben pochi quelli che hanno puntato sul Paese. «Nei nostri mandati non ci sono risorse destinate all’economia reale», ha sottolineato Di Bartolomeo nella sua audizione, «e Pioneer non può muoversi in autonomia» visto per fare questi investimenti ci sarà bisogno «di una modifica dei mandati e in qualche caso anche dei regolamenti e degli statuti dei fondi». L’occasione per rivedere regolamenti e mandati sarà probabilmente l’adeguamento al nuovo decreto 166 dell’Economia, che ha ampliato le tipologie d’investimento. I fondi dovranno adeguarsi al decreto entro maggio dell’anno prossimo. Ma c’è anche un’altra considerazione da fare: «Il credito d’imposta del 9% appare insufficiente a rappresentare un incentivo valido a finanziare l’economia reale», ha detto Laterza ai parlamentari. (riproduzione riservata)