di Lucio Sironi
Giusta l’attenzione della Consob ai rischi di conflitto d’interesse che può condizionare le politiche distributive di una rete di servizi finanziari. Ma alla fine, per determinare la performance del sottoscrittore, la qualità del servizio gioca un ruolo più importante. E qui entra in scena il professionista con cui si ha a che fare: quanto è preparato, il che spesso significa quanto è capace di impedire all’investitore di compiere scelte irrazionali.
Questo il punto di vista di Massimo Doris, ad e dg di Banca Mediolanum , sulla questione del diverso metodo di calcolo delle commissioni di performance su cui è tornata a battere la Consob e sul rischio che le società di distribuzione siano più propense a collocare tra gli investitori quei prodotti che consentono alle società di gestione di guadagnare di più.
Domanda. Dottor Doris, nel vostro caso l’incidenza di fondi flessibili di diritto irlandese, per i quali le commissioni di performance sono calcolate su base mensile, è notevole rispetto al patrimonio complessivo e in particolare ai prodotti italiani, per i quali la base di calcolo non può essere inferiore a un anno.
Risposta. A fine marzo i prodotti irlandesi rappresentavano il 77% del patrimonio gestito, gli italiani il 19%, i lussemburghesi l’1,6% e un altro 2,3% erano prodotti di terzi. Ma non direi che il fattore commissioni incida sulle politiche distributive dei nostri family banker, perché le loro provvigioni non sono diverse nel caso di sottoscrizioni di fondi italiani o stranieri. Per non dire dell’anno scorso, per esempio, quando grazie al lancio del fondo Valore Attivo, un obbligazionario high yield di breve termine, la raccolta netta in base ai criteri Assogestioni ha visto la società di gestione italiana pesare per il 64% del totale.
D. Nel primo trimestre 2015 le commissioni di performance hanno rappresentato una fetta rilevante dei vostri ricavi: 133 milioni su un totale di 466. Se dovesse cambiare il criterio di calcolo di queste fee i conti ne risentirebbero?
R. Nell’immediato sì, ma da alcune simulazioni effettuate emerge che nel medio-lungo periodo le differenze tendono ad annullarsi, semplicemente i profitti risulterebbero spalmati su un arco temporale più lungo. E comunque il vero dato rilevante per il cliente non è quello dei costi, che pure hanno la loro importanza e su cui Consob fa bene a vigilare. La questione decisiva è quanto rimane in tasca al sottoscrittore, un aspetto sul quale conta molto di più quanto gli è stato vicino il consulente, in altre parole la qualità del servizio prestato. E per capirlo bastano alcuni esempi.
D. Quali?
R. Anni fa negli Stati Uniti anni ha fatto scalpore il caso del Magellan Fund, un azionario che sotto l’abile gestione di Peter Lynch è riuscito a ottenere, nell’arco di ben 13 anni, una performance media annua del 29%. Eppure metà di quanti investirono in questo fondo in quel periodo o – soprattutto – parte di esso finirono per perdere soldi.
D. Entrarono e uscirono nel momento sbagliato?
R. Esatto, perché non avevano accanto un esperto in grado di indirizzarli su quel tipo di investimento, evitando i picchi di euforia e impedendogli di abbandonare il fondo nei momenti in cui sono diffuse paure collettive. La stessa cosa è successa anche in Italia con il fondo Anima Trading, che nel 2004 fu premiato grazie a una performance media annua del 10,9%. Ma il suo stesso gestore, Alberto Foà, rivelò che solo il 20% dei clienti aveva potuto contare su un guadagno del genere, mentre per molti altri era stato inferiore e che metà degli investitori avevano dovuto incassare una perdita. Insomma, molto più del costo incide il modo in cui il cliente viene accompagnato e mantenuto nel fondo.
D. Società di gestione e di distribuzione come potranno rispondere agli inviti della Consob?
R. La direttiva Mifid 2, che entrerà in vigore dal 2017, chiederà di informare l’investitore non solo su quanto è la remunerazione del consulente ma anche da dove essa proviene, se da lui direttamente o se è retrocessa come parte delle fee di gestione. (riproduzione riservata)