di Paola Valentini
La sanità pubblica ha fatto passi avanti nel curare gli squilibri del sistema. Nel 2014 le uscite complessive per assistenza sanitaria si sono attestate a 111 miliardi di euro in aumento dello 0,9% rispetto al 2013. «Un risultato da non sottovalutare, considerando che l’aumento registrato è inferiore a quello del complesso della spesa primaria, tanto da non interrompere la flessione delle risorse assorbite dal settore sul complesso della spesa pubblica», nota la Corte dei Conti.
E dopo i tagli realizzati negli anni scorsi per contenere le uscite, di recente è stato avviato un processo di profonda riorganizzazione che dovrebbe rendere la sanità pubblica più equa e più efficiente. «Nonostante le perduranti difficoltà della finanza pubblica», sottolinea la Corte dei Conti, «il settore sanitario si trova oggi di fronte a scelte ancora impegnative anche dal punto di vista finanziario. Pur scontando ancora margini per un recupero di efficienza al suo interno, deve affrontare costi crescenti per garantire l’accesso a farmaci e tecniche di cura innovative e offrire adeguata assistenza a una popolazione sempre più longeva».
Sul fronte dell’equità, il Patto per la Salute, siglato un anno fa tra Stato e Regioni, delinea l’azione di governo nel settore della sanità nei prossimi anni e sotto il profilo economico finanziario si basa su due pilastri: la revisione dei criteri di assegnazione alle regioni delle risorse del Ssn e la modifica del sistema di partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie e delle esenzioni.
L’introduzione delle nuove modalità di partecipazione alla spesa, basate sul reddito equivalente, farebbe cessare l’attuale esenzione per i bambini fino a sei anni e per gli anziani oltre 65 anni con reddito familiare annuo fino a 36 mila euro». Per l’assistenza farmaceutica è allo studio l’ipotesi di applicare una quota fissa per ciascuna confezione di farmaci, di importo variabile al variare del reddito equivalente. «La quota fissa, in misura ulteriormente ridotta, potrebbe applicarsi anche agli esenti per patologia e invalidità», avverte la Corte di Conti. Se quindi il sistema pubblico deve restare centrale per garantire la prestazioni indispensabili – e in questo senso il suo riordino è stato avviato – per la previdenza sanitaria integrativa c’è ancora molto da fare. Non a caso sul tema l’Ania, l’associazione delle compagnie di assicurazione, ha appena elaborato una proposta di riorganizzazione del secondo pilastro della sanità (dal titolo «Fondi sanitari, la necessità di un riordino») prendendo come modello quanto fatto nella previdenza integrativa dove, grazie alla riforma del 2005, entrata in vigore nel 2007, è stato introdotto nell’ordinamento italiano un sistema di regole omogeneo con un’unica attività di controllo, la Covip, che vigila su tutti gli strumenti del settore, quindi fondi pensione e polizze previdenziali (Pip). «È necessario definire un framework sostenibile e una nuova universalità selettiva che garantisca le prestazioni indispensabili e incondizionate per determinate fasce di popolazione, riguardo alle quali il presidio pubblico deve rimanere centrale, e ampliando l’ambito di intervento delle forme sanitarie integrative, con riferimento alle prestazioni alle quali già oggi si ricorre in maniera significativa mediante spesa di tasca propria», sostiene l’Ania nel documento che contiene le sue proposte di riordino della sanità integrativa. La quale, ricorda l’associazione, è nata nel lontano 1886 con le società operaie di mutuo soccorso, il primo esempio di welfare pubblico. «Al Quirinale dimoravano i Savoia e a Palazzo Chigi sedeva Agostino Depretis. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti ma quella legge è rimasta in vigore e se ne sono aggiunte molte altre», sintetizza l’Ania. Con il risultato che oggi il settore della sanità integrativa vede due attori principali: i fondi sanitari (comprese le casse mutue) da una parte e le polizze sanitarie delle compagnie assicurative dall’altra (queste ultime nel 2014 hanno raccolto premi per circa 2 miliardi relativi al ramo malattie, un dato stabile rispetto al 2013).
Ma questi strumenti hanno «standard di trasparenza e tutele verso gli iscritti non sempre confrontabili tra loro», denuncia l’Ania. Ad esempio, il fisco consente in molti casi di dedurre annualmente dal reddito i contributi versati a una forma di assistenza integrativa fino all’importo massimo di 3.615,20 euro, ma chi è iscritto individualmente a una forma di assistenza, o ha sottoscritto una polizza sanitaria, non può usufruire di questo beneficio. Anche sui numeri del settore non c’è omogeneità e certezza.
Si stima che 10 milioni di italiani facciano ricorso a una forma di assistenza sanitaria integrativa, ma sul loro numero effettivo, soprattutto per quelli che aderiscono ai fondi sanitari, non ci sono dati certi, a differenza di quanto accade per la previdenza complementare dove la Covip fornisce trimestralmente una fotografia completa degli iscritti ai fondi pensione. «Mentre per chi è titolare di un contratto con una compagnia, in tutto sono circa 4 milioni, lo standard di trasparenza è elevato, assoggettato alle regole in vigore per tutto il sistema assicurativo, il numero degli iscritti agli altri fondi sanitari è conosciuto alle autorità ma non è pubblico. Dal 2009 i fondi debbono essere iscritti a un’anagrafe tenuta dal ministero della Salute che, tuttavia, non rende accessibili quei dati. Chissà perché. Sicché non è possibile sapere, in concreto, cosa si agiti nella magmatica realtà della sanità integrativa italiana», denuncia l’Ania, sottolineando che, secondo le scarne informazioni distillate dal ministero della Salute nel corso di convegni o audizioni parlamentari, i fondi sanitari integrativi registrati nel 2013 erano in tutto 361 ai quali risultavano iscritti 5,8 milioni di contribuenti. Il 55% dei fondi erogava le sue prestazioni attraverso una convenzione con una compagnia d’assicurazione e il 45% risultava autoassicurato.
«Per rendere il mercato più efficiente, promuovendo un’effettiva competizione, è necessario innanzitutto allineare, come è avvenuto per la previdenza, gli incentivi fiscali a favore dell’assistenza integrativa. È poi indispensabile definire precisi standard gestionali e un assetto armonizzato di regole e controlli per dare garanzie a quanti si rivolgono a strutture private per quelle prestazioni non erogate dal Ssn», chiede l’Ania che lancia l’idea di un testo unico della sanità integrativa, in analogia alle scelte già compiute in ambito previdenziale. «Ciò avrebbe il merito di eliminare le attuali disparità di trattamento anche fiscali tra forme integrative e garantire sicurezza ed equità di trattamento anche agli iscritti a tali forme, favorendo la diffusione, la trasparenza e l’affidabilità delle stesse», conclude Ania. (riproduzione riservata)